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TESORO BLU DA DIFENDERE
Il suo ultimo riconoscimento è il Premio Atlantide 2017, attribuito dalla Worldwide Academy of Scuba Educators. A soli 31 anni Mariasole è quasi famosa in Italia e nel mondo quanto la Sirenetta Ariel, per il suo impegno a studiare e difendere l’ambiente marino (ha anche fondato una organizzazione diretta e dedicata ai giovani, la ONLUS Worldrise).
Mariasole è anche membro nella Commissione Internazionale delle Aree Protette, è stata nominata nel 2015 fra i 100 Ocean Heroes del mensile americano “Origin”, è conferenziera alla James Cook University, in Australia... In- somma una scienziata stimata e conosciuta in tutto il mondo, e anche un personaggio Tv, ospite fissa su Rai 3 a “Kilimangiaro”!
Il suo ultimo riconoscimento è il Premio Atlantide 2017, attribuito dalla Worldwide Academy of Scuba Educators. A soli 31 anni Mariasole è quasi famosa in Italia e nel mondo quanto la Sirenetta Ariel, per il suo impegno a studiare e difendere l’ambiente marino (ha anche fondato una organizzazione diretta e dedicata ai giovani, la ONLUS Worldrise).
Mariasole è anche membro nella Commissione Internazionale delle Aree Protette, è stata nominata nel 2015 fra i 100 Ocean Heroes del mensile americano “Origin”, è conferenziera alla James Cook University, in Australia... In- somma una scienziata stimata e conosciuta in tutto il mondo, e anche un personaggio Tv, ospite fissa su Rai 3 a “Kilimangiaro”!

Dalle eolie, la sfida di chef e scienziate proteggiamo le risorse del mare
di DIANA DE MARSANICH - foto di Silvia tenenti
A Filicudi, Monica salva i delfini. A Salina Giulia censisce i pesci, Margherita accoglie e sensibilizza i turisti. Mariasole è esperta di tutela delle acque, Lisa insegna a consumare il giusto e Federica ha creato un fondo per proteggere le risorse marine. Ecco le loro storie
di DIANA DE MARSANICH - foto di Silvia tenenti
A Filicudi, Monica salva i delfini. A Salina Giulia censisce i pesci, Margherita accoglie e sensibilizza i turisti. Mariasole è esperta di tutela delle acque, Lisa insegna a consumare il giusto e Federica ha creato un fondo per proteggere le risorse marine. Ecco le loro storie

Il grande blu
In Indonesia sta per iniziare il World Ocean Summit. Esperti di tutto il mondo si confronteranno su come creare una nuova economia del mare. Capace, soprattutto, di salvarlo
di Gabriele Nicolussi (20 febbraio 2017)
"Our ocean is our future”. Il tema di quest’anno dedicato alla giornata dell’oceano, che si celebra l’8 giugno, non lascia spazio a fraintendimenti: gli oceani sono il nostro futuro. Proprio in quest’ottica, dal 22 al 24 febbraio a Bali, in Indonesia, si terrà il quarto World Ocean Summit. Organizzato dall’Economist, è una tre giorni di dibattiti con l’obiettivo di “suscitare una nuova discussione su come creare investimenti sostenibili nell’oceano”. A parlare ci saranno ministri, esponenti di Wto e Onu, portavoce di banche, ong e ambientalisti. Se è vero che gli incontri saranno incentrati principalmente sul fattore economico dello sfruttamento dei mari, sarà anche una buona occasione per parlare di cambiamenti climatici e politiche ambientali. Sul piatto della bilancia, temi come l’eccessivo delle risorse ittiche, l’inquinamento, l’effetto serra. E, forse, un ospite a sorpresa: le politiche di Donald Trump in tema di ambiente.
Se c’è una cosa che il nuovo presidente degli Stati Uniti riesce a fare bene è scatenare il dibattito, su molti fronti. Partendo dalla campagna elettorale e arrivando ai primi atti presidenziali, Trump ha cambiato le carte in tavola, inaugurando una nuova stagione in controtendenza rispetto alla presidenza Obama. E così, oltre all’immigrazione, alla crisi economica, agli asset geopolitici mondiali, nel mazziere del presidente sono finite anche le politiche ambientali. Parola d’ordine: smettere di pensare ai cambiamenti climatici e buttarsi invece sui combustibili fossili. Per prima cosa ha ordinato all’Epa (Environmental Protection Agency, cioè l’Agenzia americana per la protezione dell’ambiente) di interrompere le comunicazioni con l’esterno, in attesa di nuove direttive. La Noa (National Oceanic and Atmospheric Administration, l’agenzia governativa che si occupa degli oceani) potrebbe essere la prossima. Il nuovo presidente ha poi introdotto il suo American First Energy Plan, che di fatto mira a smantellare le “politiche dannose e non necessarie”, così sono definite sul sito della Casa Bianca, come il Climate Action Plan, il programma con cui Obama si era impegnato a ridurre la produzione di anidride carbonica.
«È un segnale inquietante di rinnovato asservimento alla lobby dei combustibili fossili», commenta Stefano Donati, direttore dell’area protetta delle isole Egadi. «Perdere gli Stati Uniti come costola alla lotta ai cambiamenti climatici sarà un bel problema». Anche e soprattutto per gli oceani, che assorbono il calore in eccesso causato dall’effetto serra e sono il maggiore alleato contro il surriscaldamento. Il loro tasso di acidità dalla rivoluzione industriale è aumentato del 30%, con una velocità, quella attuale, mai vista prima. Un segnale che preoccupa gli esperti, che rivendicano la necessità di puntare sulle energie rinnovabili. «La preoccupazione grande», dice Mariasole Bianco, membro della Commissione mondiale per le aree protette (Wcpa) all’Iucn (l’Unione internazionale per la conservazione della natura), «è che i finanziamenti alle nazioni in via di sviluppo e tutto il settore della ricerca, su cui gli Usa hanno sempre investito molto, con il tempo si esauriscano». Con gli States fuori dai giochi, il nuovo protagonista mondiale sta diventando la Cina. «È stata uno dei primi paesi a pagare le conseguenze dell’inquinamento. Adesso siamo arrivati a un livello paradossale: il presidente cinese sottolinea la necessità di andare avanti con gli accordi di Parigi e rivendica il ruolo di leader nella lotta ambientale».
E l’Europa come si sta comportando? «Sembra che l’Unione, immersa in una prospettiva economica triste, si stia ritirando dalla sua posizione storica di campione globale verde», commenta Demetres Karavellas, Ceo di Wwf Grecia. «Le pressioni per la deregolamentazione ambientale stanno aumentando in modo sproporzionato, e la crescita rapida a tutti i costi è il mantra politico dominante in questi tempi difficili». La crisi morde e non si riesce, o non si vuole, puntare a una ripresa basata su modelli ecosostenibili.
Per convincere soprattutto la politica ad agire in modo green (o, in questo caso, blu) è necessario anche parlare di economia. I mari sono un’immensa risorsa, quantificata anche in termini monetari. Uno studio dell’Università di Palermo ha stimato che l’area marina protetta delle isole Egadi (54mila ettari) vale circa 10 miliardi di euro. Quasi quanto una finanziaria. A rendere ricchi questi mari ci pensa la posidonia, una pianta oceanica molto diffusa nel Mediterraneo. Ha un valore ecosistemico molto alto, perché svolge tre importanti funzioni per il mare. In primo luogo è il polmone verde dell’oceano. Essendo una pianta (non un’alga), assorbe anidride carbonica e produce, nello specifico e a parità di metri quadrati, due volte e mezzo l’ossigeno della foresta amazzonica. Secondo punto, difende anche la biodiversità, perché è l’incubatrice di molte specie di pesci, che in giovane età si riparano fra le sue foglie, riuscendo così a sopravvivere. Ultima funzione, ma per questo non meno importante, salva le coste dall’erosione. Avete presente le piante morte che si trovano spesso sulle spiagge e che sono tanto odiate dai turisti? Quella è posidionia e quel tappeto, brutto da vedere, è in realtà fondamentale, perché tiene ferma la sabbia.
«Per salvaguardare dall’erosione un km di costa - spiega Donati - lo Stato spende ogni anno 800mila euro. Se si associa questo dato ai 77 km di coste delle isole Egadi arriviamo annualmente a una cifra altissima (più di 61 milioni di euro, ndr). Questo lavoro la posidonia lo fa gratis».
Proteggere il mare promuovendo un modello sostenibile aiuta anche la comunità nel suo complesso. Lo sa bene Giuseppe Di Carlo, che dirige il programma marino mediterraneo del Wwf. «Prima il mare era visto come una discarica o come qualcosa su cui gli ambientalisti rompevano le scatole. Oggi si comincia a capire anche che porta benefici economici. Come Wwf abbiamo scoperto che le attività che si basano sul mare - pesca, turismo, acquacoltura - valgono in Italia il 3% del Pil. Se nel conteggio inseriamo solo le zone costiere, togliendo grandi città e zone industriali, arriviamo al 12% del Pil». È evidente che senza un modello sostenibile, con mari sporchi e che rischiano di rimanere senza pesci per l’inquinamento, i cambiamenti climatici e la pesca intensiva, ne risentiamo tutti.
Il turismo subacqueo per esempio, spiega Di Carlo, in Italia resiste quasi solo grazie alle aree marine protette che, con la loro biodiversità, garantiscono un notevole indotto. «La cernia ne è un po’ il simbolo, perché vicino alla costa si può avvistare solo in quelle aree. Da morta, al mercato, vale 30 euro al chilo. Da viva, nell’arco di 10 anni circa, vale centinaia di migliaia di euro». Porta infatti guadagno non solo al maestro di sub, che ti accompagna in mare a vederla, ma anche ai ristoranti dove vai a mangiare, agli alberghi dove dormi, ai Comuni che si prendono la tua tassa di soggiorno, ai traghetti a cui paghi il biglietto e così via. La domanda vien spontanea: quanto spende l’Italia per la salvaguardia delle sue 30 aree marine protette? «Nel bilancio dello stato», dice Di Gennaro, «vi sono destinati circa tre milioni e mezzo di euro. In pratica 115mila euro l’una». Non abbastanza, se si pensa che un’area marina protetta, da sola, vale 10 miliardi.
NUMERI ALL’AMO Gli oceani occupano il 71% della superficie terrestre e forniscono al nostro pianeta il 50% dell’ossigeno. Il sovrasfruttamento delle risorse ittiche è arrivato a un punto tale che per la Fao, di questo passo, nel 2030 non ci saranno più pesci. Nel solo Mediterraneo ci sono circa mezzo milione di pescatori e l’Europa è la più grande consumatrice di pesce al mondo. Un’altra previsione disarmante l’ha fatta l’Onu: agli attuali ritmi di inquinamento, nel 2050 negli oceani ci sarà più plastica che pesci. È quindi sempre più importante difendere gli oceani dalle azioni nocive dell’uomo. Fondamentali per questo sono le riserve marine. La più grande al mondo, nata nel 2016, è in Antartide e si estende per 1.550.000 chilometri quadrati. Seconda in ordine di grandezza (un milione e mezzo di km²) è quella di Papah?naumoku?kea, alle Hawaii. Dichiarata monumento nazionale Usa nel 2006, ha quadruplicato l’estensione con Obama, che ha dichiarato più aree protette di ogni presidente americano. G.N.
In Indonesia sta per iniziare il World Ocean Summit. Esperti di tutto il mondo si confronteranno su come creare una nuova economia del mare. Capace, soprattutto, di salvarlo
di Gabriele Nicolussi (20 febbraio 2017)
"Our ocean is our future”. Il tema di quest’anno dedicato alla giornata dell’oceano, che si celebra l’8 giugno, non lascia spazio a fraintendimenti: gli oceani sono il nostro futuro. Proprio in quest’ottica, dal 22 al 24 febbraio a Bali, in Indonesia, si terrà il quarto World Ocean Summit. Organizzato dall’Economist, è una tre giorni di dibattiti con l’obiettivo di “suscitare una nuova discussione su come creare investimenti sostenibili nell’oceano”. A parlare ci saranno ministri, esponenti di Wto e Onu, portavoce di banche, ong e ambientalisti. Se è vero che gli incontri saranno incentrati principalmente sul fattore economico dello sfruttamento dei mari, sarà anche una buona occasione per parlare di cambiamenti climatici e politiche ambientali. Sul piatto della bilancia, temi come l’eccessivo delle risorse ittiche, l’inquinamento, l’effetto serra. E, forse, un ospite a sorpresa: le politiche di Donald Trump in tema di ambiente.
Se c’è una cosa che il nuovo presidente degli Stati Uniti riesce a fare bene è scatenare il dibattito, su molti fronti. Partendo dalla campagna elettorale e arrivando ai primi atti presidenziali, Trump ha cambiato le carte in tavola, inaugurando una nuova stagione in controtendenza rispetto alla presidenza Obama. E così, oltre all’immigrazione, alla crisi economica, agli asset geopolitici mondiali, nel mazziere del presidente sono finite anche le politiche ambientali. Parola d’ordine: smettere di pensare ai cambiamenti climatici e buttarsi invece sui combustibili fossili. Per prima cosa ha ordinato all’Epa (Environmental Protection Agency, cioè l’Agenzia americana per la protezione dell’ambiente) di interrompere le comunicazioni con l’esterno, in attesa di nuove direttive. La Noa (National Oceanic and Atmospheric Administration, l’agenzia governativa che si occupa degli oceani) potrebbe essere la prossima. Il nuovo presidente ha poi introdotto il suo American First Energy Plan, che di fatto mira a smantellare le “politiche dannose e non necessarie”, così sono definite sul sito della Casa Bianca, come il Climate Action Plan, il programma con cui Obama si era impegnato a ridurre la produzione di anidride carbonica.
«È un segnale inquietante di rinnovato asservimento alla lobby dei combustibili fossili», commenta Stefano Donati, direttore dell’area protetta delle isole Egadi. «Perdere gli Stati Uniti come costola alla lotta ai cambiamenti climatici sarà un bel problema». Anche e soprattutto per gli oceani, che assorbono il calore in eccesso causato dall’effetto serra e sono il maggiore alleato contro il surriscaldamento. Il loro tasso di acidità dalla rivoluzione industriale è aumentato del 30%, con una velocità, quella attuale, mai vista prima. Un segnale che preoccupa gli esperti, che rivendicano la necessità di puntare sulle energie rinnovabili. «La preoccupazione grande», dice Mariasole Bianco, membro della Commissione mondiale per le aree protette (Wcpa) all’Iucn (l’Unione internazionale per la conservazione della natura), «è che i finanziamenti alle nazioni in via di sviluppo e tutto il settore della ricerca, su cui gli Usa hanno sempre investito molto, con il tempo si esauriscano». Con gli States fuori dai giochi, il nuovo protagonista mondiale sta diventando la Cina. «È stata uno dei primi paesi a pagare le conseguenze dell’inquinamento. Adesso siamo arrivati a un livello paradossale: il presidente cinese sottolinea la necessità di andare avanti con gli accordi di Parigi e rivendica il ruolo di leader nella lotta ambientale».
E l’Europa come si sta comportando? «Sembra che l’Unione, immersa in una prospettiva economica triste, si stia ritirando dalla sua posizione storica di campione globale verde», commenta Demetres Karavellas, Ceo di Wwf Grecia. «Le pressioni per la deregolamentazione ambientale stanno aumentando in modo sproporzionato, e la crescita rapida a tutti i costi è il mantra politico dominante in questi tempi difficili». La crisi morde e non si riesce, o non si vuole, puntare a una ripresa basata su modelli ecosostenibili.
Per convincere soprattutto la politica ad agire in modo green (o, in questo caso, blu) è necessario anche parlare di economia. I mari sono un’immensa risorsa, quantificata anche in termini monetari. Uno studio dell’Università di Palermo ha stimato che l’area marina protetta delle isole Egadi (54mila ettari) vale circa 10 miliardi di euro. Quasi quanto una finanziaria. A rendere ricchi questi mari ci pensa la posidonia, una pianta oceanica molto diffusa nel Mediterraneo. Ha un valore ecosistemico molto alto, perché svolge tre importanti funzioni per il mare. In primo luogo è il polmone verde dell’oceano. Essendo una pianta (non un’alga), assorbe anidride carbonica e produce, nello specifico e a parità di metri quadrati, due volte e mezzo l’ossigeno della foresta amazzonica. Secondo punto, difende anche la biodiversità, perché è l’incubatrice di molte specie di pesci, che in giovane età si riparano fra le sue foglie, riuscendo così a sopravvivere. Ultima funzione, ma per questo non meno importante, salva le coste dall’erosione. Avete presente le piante morte che si trovano spesso sulle spiagge e che sono tanto odiate dai turisti? Quella è posidionia e quel tappeto, brutto da vedere, è in realtà fondamentale, perché tiene ferma la sabbia.
«Per salvaguardare dall’erosione un km di costa - spiega Donati - lo Stato spende ogni anno 800mila euro. Se si associa questo dato ai 77 km di coste delle isole Egadi arriviamo annualmente a una cifra altissima (più di 61 milioni di euro, ndr). Questo lavoro la posidonia lo fa gratis».
Proteggere il mare promuovendo un modello sostenibile aiuta anche la comunità nel suo complesso. Lo sa bene Giuseppe Di Carlo, che dirige il programma marino mediterraneo del Wwf. «Prima il mare era visto come una discarica o come qualcosa su cui gli ambientalisti rompevano le scatole. Oggi si comincia a capire anche che porta benefici economici. Come Wwf abbiamo scoperto che le attività che si basano sul mare - pesca, turismo, acquacoltura - valgono in Italia il 3% del Pil. Se nel conteggio inseriamo solo le zone costiere, togliendo grandi città e zone industriali, arriviamo al 12% del Pil». È evidente che senza un modello sostenibile, con mari sporchi e che rischiano di rimanere senza pesci per l’inquinamento, i cambiamenti climatici e la pesca intensiva, ne risentiamo tutti.
Il turismo subacqueo per esempio, spiega Di Carlo, in Italia resiste quasi solo grazie alle aree marine protette che, con la loro biodiversità, garantiscono un notevole indotto. «La cernia ne è un po’ il simbolo, perché vicino alla costa si può avvistare solo in quelle aree. Da morta, al mercato, vale 30 euro al chilo. Da viva, nell’arco di 10 anni circa, vale centinaia di migliaia di euro». Porta infatti guadagno non solo al maestro di sub, che ti accompagna in mare a vederla, ma anche ai ristoranti dove vai a mangiare, agli alberghi dove dormi, ai Comuni che si prendono la tua tassa di soggiorno, ai traghetti a cui paghi il biglietto e così via. La domanda vien spontanea: quanto spende l’Italia per la salvaguardia delle sue 30 aree marine protette? «Nel bilancio dello stato», dice Di Gennaro, «vi sono destinati circa tre milioni e mezzo di euro. In pratica 115mila euro l’una». Non abbastanza, se si pensa che un’area marina protetta, da sola, vale 10 miliardi.
NUMERI ALL’AMO Gli oceani occupano il 71% della superficie terrestre e forniscono al nostro pianeta il 50% dell’ossigeno. Il sovrasfruttamento delle risorse ittiche è arrivato a un punto tale che per la Fao, di questo passo, nel 2030 non ci saranno più pesci. Nel solo Mediterraneo ci sono circa mezzo milione di pescatori e l’Europa è la più grande consumatrice di pesce al mondo. Un’altra previsione disarmante l’ha fatta l’Onu: agli attuali ritmi di inquinamento, nel 2050 negli oceani ci sarà più plastica che pesci. È quindi sempre più importante difendere gli oceani dalle azioni nocive dell’uomo. Fondamentali per questo sono le riserve marine. La più grande al mondo, nata nel 2016, è in Antartide e si estende per 1.550.000 chilometri quadrati. Seconda in ordine di grandezza (un milione e mezzo di km²) è quella di Papah?naumoku?kea, alle Hawaii. Dichiarata monumento nazionale Usa nel 2006, ha quadruplicato l’estensione con Obama, che ha dichiarato più aree protette di ogni presidente americano. G.N.
Dolphin Watching a Golfo Aranci
Ecoturismo in Sardegna una scommessa vincente di Mariasole Bianco
Mescolare senza agitare quanto di più bello si trova in natura, respirare a pieni polmoni, osservare le piccole cose che rendono unico un luogo, conoscerne la storia e riscoprire la capacità di meravigliarsi. Così ogni elemento contribuisce all’insieme e, quasi senza accorgervene, avrete scoperto gli ingredienti fondamentali dell’ecoturismo. Quest’ultimo è una realtà che, anno dopo anno, cresce in modo predominante nel settore del turismo. Un trend positivo che trova conferme nei viaggiatori, che in tutto il mondo, scelgono di non fermarsi alla bellezza di un panorama, ma di avventurarsi alla sua scoperta e conoscenza nel più profondo rispetto della natura.
Il patrimonio culturale e naturale italiano, unico al mondo per ricchezza e diversità, offre terreno fertile per lo sviluppo dell’ecoturismo che, inoltre, può giocare un ruolo chiave per la sua tutela e valorizzazione.
In particolare la Sardegna, un’isola giustamente decantata e conosciuta per l’incomparabile bellezza del suo territorio, si presta a mettere in luce tutte le potenzialità ambientali e economiche dell’ecoturismo.
Nasce da questi presupposti il progetto “Il Golfo dei Delfini”, un’iniziativa creata da Worldrise Onlus nel 2014. Il progetto è rivolto alle migliaia di turisti che ogni estate, nelle acque del Comune di Golfo Aranci (Olbia), ammirano al tramonto una delle creature più belle al mondo: il delfino. L’idea è di trasformare l’attività di dolphin watching (avvistamento delfini) in un esempio di offerta ecoturistica basata sulla valorizzazione delle risorse naturali presenti tutto l’anno sul territorio.
I partecipanti durante l’avvistamento sono coinvolti in un’appassionante lezione alla portata di tutti sulle ricchezze dell’ambiente costiero e marino mediterraneo nella quale viene anche insegnata la non facile arte dell’osservare condividendo le regole del mare e rispettando la vita dei delfini.
L’esperienza dell’avvistamento, inolte, è impreziosita dal suggestivo scenario del promontorio di Capo Figari e dell’Isola di Figarolo che offre, inoltre, condizioni di mare ideali per l’avvistamento. Quando poi, durante i mesi estivi, si scorgono i cuccioli di delfino nuotare tra gli adulti del branco, l’emozione non può che dilagare a bordo delle imbarcazioni che, facendo attenzione a non disturbarle, seguono queste incredibili creature.
A suggellare questo impegno un certificato di sostenibilità ambientale viene rilasciato da Friend of the Sea agli operatori che si sono mostrati capaci di interagire con i delfini nel rispetto della loro sicurezza seguendo regole fondamentali quali, ad esempio, il mantenimento della velocità minima e della distanza di sicurezza o il divieto assoluto di dare cibo agli animali.
Ecco, dunque, come l’ecoturismo offra l’opportunità di conciliare l’educazione al rispetto dell’ambiente, e l’avventura della scoperta del mare alle esigenze di destagionalizzare la domanda turistica delle comunità per le quali tale settore rappresenta una grande risorsa economica.
Partecipare a queste escursioni è come immergersi in un mondo unico che, trasmettendoci tutta la sua energia, ci insegna a prenderci cura di ciò che ci circonda e a scoprire nuove forme di vedere e vivere la vita.
Mariasole Bianco
Esperta di conservazione dell’ambiente marino, scienziata e divulgatrice ambientale.
Presidente di Worldrise e membro della Commissione Mondiale delle Aree Protette e punto di riferimento nazionale ed internazionale per le politiche legate alla tutela dell’ambiente marino e lo sviluppo sostenibile. Recentemente è stata riconosciuta dal mensile americano Origin tra i 100 “ OCEAN HEROES” .
Ecoturismo in Sardegna una scommessa vincente di Mariasole Bianco
Mescolare senza agitare quanto di più bello si trova in natura, respirare a pieni polmoni, osservare le piccole cose che rendono unico un luogo, conoscerne la storia e riscoprire la capacità di meravigliarsi. Così ogni elemento contribuisce all’insieme e, quasi senza accorgervene, avrete scoperto gli ingredienti fondamentali dell’ecoturismo. Quest’ultimo è una realtà che, anno dopo anno, cresce in modo predominante nel settore del turismo. Un trend positivo che trova conferme nei viaggiatori, che in tutto il mondo, scelgono di non fermarsi alla bellezza di un panorama, ma di avventurarsi alla sua scoperta e conoscenza nel più profondo rispetto della natura.
Il patrimonio culturale e naturale italiano, unico al mondo per ricchezza e diversità, offre terreno fertile per lo sviluppo dell’ecoturismo che, inoltre, può giocare un ruolo chiave per la sua tutela e valorizzazione.
In particolare la Sardegna, un’isola giustamente decantata e conosciuta per l’incomparabile bellezza del suo territorio, si presta a mettere in luce tutte le potenzialità ambientali e economiche dell’ecoturismo.
Nasce da questi presupposti il progetto “Il Golfo dei Delfini”, un’iniziativa creata da Worldrise Onlus nel 2014. Il progetto è rivolto alle migliaia di turisti che ogni estate, nelle acque del Comune di Golfo Aranci (Olbia), ammirano al tramonto una delle creature più belle al mondo: il delfino. L’idea è di trasformare l’attività di dolphin watching (avvistamento delfini) in un esempio di offerta ecoturistica basata sulla valorizzazione delle risorse naturali presenti tutto l’anno sul territorio.
I partecipanti durante l’avvistamento sono coinvolti in un’appassionante lezione alla portata di tutti sulle ricchezze dell’ambiente costiero e marino mediterraneo nella quale viene anche insegnata la non facile arte dell’osservare condividendo le regole del mare e rispettando la vita dei delfini.
L’esperienza dell’avvistamento, inolte, è impreziosita dal suggestivo scenario del promontorio di Capo Figari e dell’Isola di Figarolo che offre, inoltre, condizioni di mare ideali per l’avvistamento. Quando poi, durante i mesi estivi, si scorgono i cuccioli di delfino nuotare tra gli adulti del branco, l’emozione non può che dilagare a bordo delle imbarcazioni che, facendo attenzione a non disturbarle, seguono queste incredibili creature.
A suggellare questo impegno un certificato di sostenibilità ambientale viene rilasciato da Friend of the Sea agli operatori che si sono mostrati capaci di interagire con i delfini nel rispetto della loro sicurezza seguendo regole fondamentali quali, ad esempio, il mantenimento della velocità minima e della distanza di sicurezza o il divieto assoluto di dare cibo agli animali.
Ecco, dunque, come l’ecoturismo offra l’opportunità di conciliare l’educazione al rispetto dell’ambiente, e l’avventura della scoperta del mare alle esigenze di destagionalizzare la domanda turistica delle comunità per le quali tale settore rappresenta una grande risorsa economica.
Partecipare a queste escursioni è come immergersi in un mondo unico che, trasmettendoci tutta la sua energia, ci insegna a prenderci cura di ciò che ci circonda e a scoprire nuove forme di vedere e vivere la vita.
Mariasole Bianco
Esperta di conservazione dell’ambiente marino, scienziata e divulgatrice ambientale.
Presidente di Worldrise e membro della Commissione Mondiale delle Aree Protette e punto di riferimento nazionale ed internazionale per le politiche legate alla tutela dell’ambiente marino e lo sviluppo sostenibile. Recentemente è stata riconosciuta dal mensile americano Origin tra i 100 “ OCEAN HEROES” .

I delfini preziosi alleati del turismo ecosostenibile
Golfo Aranci punta ad arricchire l’offerta turistica con il “dolphin watching” di Tiziana Simula
GOLFO ARANCI. Operatori turistici come custodi del mare, dove la conoscenza si coniuga con l’economia, per lo sviluppo di un turismo ecosostenibile. Nuove regole e certificazione di sostenibilità ambientale arrivano nelle acque di Golfo Aranci, a tutela dei suoi abitanti più amati, i delfini, sempre più protagonisti delle vacanze di chi sceglie la Gallura. Il “dolphin watching”, l’attività di avvistamento dei delfini, si sta diffondendo sempre di più nell’offerta turistica di diving e operatori dediti alle escursioni in mare. Tanto da rendere necessaria un’auto regolamentazione da parte delle attività turistiche.
A proporla e a concordarla con gli operatori che si dedicano al dolphin watching, è la Wolrdrise, un’organizzazione onlus di cui è presidente Mariasole Bianco, una laurea in biologia marina e un master in Australia (dove si è dedicata allo studio della barriera corallina), componente della Commissione mondiale delle aree protette, ospite frequente della trasmissione tv Kilimangiaro.
Amante del mondo sommerso di Golfo Aranci nel quale si immerge fin da bambina, Mariasole Bianco, con la sua Onlus, attraverso cui promuove progetti per la tutela dell’ambiente marino, ha dato vita due anni fa al progetto “Golfo dei delfini”, e ha redatto la prima auto regolamentazione sull’avvistamento dei delfini, in collaborazione con quattro operatori locali: il Centro immersioni Figarolo, Cds diving & marine services, cooperativa sociale Figari, Diving & snorkeling team. Regole che si rifanno alle linee guida internazionali applicate per uno sviluppo economico sano e sostenibile.
Nelle loro escursioni tra le onde, alla scoperta della vita dei delfini, gli operatori devono attenersi a precise regole che assicurano la sostenibilità ambientale dell’attività. Sostenibilità suggellata dalla certificazione di “Friend of the sea”,programma di certificazione internazionale per le attività di dolphin e whale watching sostenibili. Una novità che ha preso il via la settimana scorsa. Undici in tutto le regole a cui devono attenersi gli aderenti al progetto, quattro, quelle quali fondamentali: la velocità delle imbarcazioni nelle fasce di osservazione (massimo 5 nodi), la distanza di sicurezza (non è consentito avvicinarsi a meno di 60 metri dai delfini), durante l’osservazione il motore dev’essere in folle, e divieto assoluto di dare cibo agli animali e fare il bagno. Ma l’escursione non è fine a se stessa. Gli operatori vengono anche formati per educare i turisti alla conoscenza dei cetacei.
«Integrare l’attività turistica con aspetti educativi è un requisito fondamentale per l’accreditamento come attività ecoturistica, per imparare a conoscere, amare e rispettare il nostro mare – spiega Mariasole Bianco – Ambiente e turismo responsabile possono convivere con grandi benefici per il territorio, creando ricchezza e opportunità per tutti».
Golfo Aranci punta ad arricchire l’offerta turistica con il “dolphin watching” di Tiziana Simula
GOLFO ARANCI. Operatori turistici come custodi del mare, dove la conoscenza si coniuga con l’economia, per lo sviluppo di un turismo ecosostenibile. Nuove regole e certificazione di sostenibilità ambientale arrivano nelle acque di Golfo Aranci, a tutela dei suoi abitanti più amati, i delfini, sempre più protagonisti delle vacanze di chi sceglie la Gallura. Il “dolphin watching”, l’attività di avvistamento dei delfini, si sta diffondendo sempre di più nell’offerta turistica di diving e operatori dediti alle escursioni in mare. Tanto da rendere necessaria un’auto regolamentazione da parte delle attività turistiche.
A proporla e a concordarla con gli operatori che si dedicano al dolphin watching, è la Wolrdrise, un’organizzazione onlus di cui è presidente Mariasole Bianco, una laurea in biologia marina e un master in Australia (dove si è dedicata allo studio della barriera corallina), componente della Commissione mondiale delle aree protette, ospite frequente della trasmissione tv Kilimangiaro.
Amante del mondo sommerso di Golfo Aranci nel quale si immerge fin da bambina, Mariasole Bianco, con la sua Onlus, attraverso cui promuove progetti per la tutela dell’ambiente marino, ha dato vita due anni fa al progetto “Golfo dei delfini”, e ha redatto la prima auto regolamentazione sull’avvistamento dei delfini, in collaborazione con quattro operatori locali: il Centro immersioni Figarolo, Cds diving & marine services, cooperativa sociale Figari, Diving & snorkeling team. Regole che si rifanno alle linee guida internazionali applicate per uno sviluppo economico sano e sostenibile.
Nelle loro escursioni tra le onde, alla scoperta della vita dei delfini, gli operatori devono attenersi a precise regole che assicurano la sostenibilità ambientale dell’attività. Sostenibilità suggellata dalla certificazione di “Friend of the sea”,programma di certificazione internazionale per le attività di dolphin e whale watching sostenibili. Una novità che ha preso il via la settimana scorsa. Undici in tutto le regole a cui devono attenersi gli aderenti al progetto, quattro, quelle quali fondamentali: la velocità delle imbarcazioni nelle fasce di osservazione (massimo 5 nodi), la distanza di sicurezza (non è consentito avvicinarsi a meno di 60 metri dai delfini), durante l’osservazione il motore dev’essere in folle, e divieto assoluto di dare cibo agli animali e fare il bagno. Ma l’escursione non è fine a se stessa. Gli operatori vengono anche formati per educare i turisti alla conoscenza dei cetacei.
«Integrare l’attività turistica con aspetti educativi è un requisito fondamentale per l’accreditamento come attività ecoturistica, per imparare a conoscere, amare e rispettare il nostro mare – spiega Mariasole Bianco – Ambiente e turismo responsabile possono convivere con grandi benefici per il territorio, creando ricchezza e opportunità per tutti».
Non solo foreste: perché il nostro futuro dipende dagli oceani - Francesca Santolini
● Parla la biologa Mariasole Bianco: «Dalle acque metà dell’ossigeno che respiriamo»
● «Al vertice di Parigi compiuto un primo passo per la protezione dell’ambiente marino»
Gli inglesi lo chiamano ‘The Other CO2 problem’, perché se in effetti si parla molto degli effetti dell’aumento della concentrazione di CO2 sul cambiamento climatico, molto più raramente si ricorda quali siano quelli sugli oceani. Eppure si tratta della causa maggiore di acidificazione dei nostri mari. Dal periodo pre- industriale ad oggi, il livello di acidità degli oceani è aumentato del 26%.
Secondo gli scienziati, gli oceani hanno assorbito un quarto di C02 prodotto dalle attività umane in due secoli, questo fenomeno avrebbe determinato dei cambiamenti chimici tra cui la diminuzione del Ph oceanico. Il fenomeno è amplificato dal riscaldamento climatico che non fa che accelerare questa diminuzione del Ph. Le previsioni degli esperti sono davvero allarmanti: l’acidità dovrebbe aumentare di circa il 170% entro la fine del XXI secolo. Un tale aumento in un periodo così breve, non si verificava da più di trecento milioni di anni. Se le conseguenze di un tale cambiamento sono difficili da prevedere, una cosa è certa: la biodiversità nel suo insieme è minacciata. Rendendo le acque più corrosive, la modificazione del Ph produce delle conseguenze sulla fauna e sulla flora marina. I coralli e i molluschi sono tra i più a rischio.
La graduale scomparsa di questi esseri viventi potrebbe a sua volta generare altri danni collaterali: i coralli danno riparo agli organismi marini e agli ecosistemi e riducono l’impatto di eventi climatici estremi, come gli tsunami e gli uragani. E 400 milioni di esseri umani dipendono indirettamente da questi spazi naturali. Insomma, non dovrebbe essere necessario immaginare uno scenario peggiore di questo per cominciare a intervenire. Di questo tema ne parliamo con Mariasole Bianco, biologa marina, membro della Commissione mondiale delle aree protette e una delle esperte che racconterà i cambiamenti del nostro pianeta nella trasmissione “Kilimangiaro”.
Gli oceani hanno un ruolo fondamentale nella regolazione del cli- ma, cosa hanno deciso i “Grandi” della terra durante la Conferenza di Parigi su questo tema?
«Gli oceani sono il polmone del pia- neta: producono la metà dell’ossigeno che respiriamo, assorbono un quarto dell’anidride carbonica (CO2) e hanno finora assimilato circa il 90% del calore intrappolato nell’atmosfera dai gas serra. Eppure, il ruolo fondamentale degli oceani nel limitare la portata dei cambiamenti climatici non era mai stato preso in seria considerazione durante i negoziati finora intrapresi per raggiungere un accordo globale sul clima. A Parigi è stato fatto un primo piccolo passo. L’accordo prevede il riconoscimento parziale del ruolo dell’oceano e fornirà le basi per una maggiore considerazione della necessità di protezione dell’ambiente marino. Il prossimo passo è quello di portare l’oceano al centro dell’agenda e del processo decisionale nelle riunioni future attribuendogli un riconoscimento equivalente a quello delle foreste ad esempio. Ignorare l’oceano nel dibattito sui cambiamenti climatici è come cercare di trattare un solo organo per curare il collasso dell’intero sistema».
Mari ed oceani rappresentano il 71% della superficie terrestre e costituiscono una grande fonte di risorse naturali e biologiche. Come i cambiamenti climatici stanno influenzando l’oceano? «Gli impatti fisici e chimici dei cambiamenti climatici sugli oceani, sono ormai molto chiari e drammatici per la tremenda velocità in cui si stanno palesando. Questi impatti si concretizzano con un aumento della temperatura degli oceani con un riscaldamento osservato fino a una profondità di 1000 metri, lo scioglimento dei ghiacciai che provoca l’innalzamento del livello del mare, la modificazione della composizione chimica dell’oceano, le catene alimentari e la circolazione delle correnti. Tutti questi fenomeni, a loro volta, influenzano la migrazione, l’abbondanza e i cicli di riproduzione di piante e animali marini minacciando la loro stessa esistenza come nel caso dei coralli».
E poi ci sono gli impatti sociali...
«Sì è vero, le conseguenze di questi cambiamenti incidono sulla possibilità di sopravvivenza e sostentamento di milioni di persone, molte delle quali vivono in povertà, e dipendono dal mare come fonte primaria di cibo e reddito. Allo stesso tempo, le condizioni meteorologiche cambiano, con eventi estremi quali uragani e alluvioni che diventano sempre più frequenti e che uniti all’innalzamento del livello del mare già minacciano moltissimi territori insulari e potrebbero causare un esodo incalcolabile di nuovi rifugiati, i cosiddetti rifugiati ambientali».
Cresce anche l’allarme degli scienziati per i livelli record dell’acidificazione degli oceani provocati dall’aumento di CO2. Un fenomeno ancora poco conosciuto dall’opinione pubblica, ma le cui conseguenze potrebbero rappresentare una grande minaccia per la biodiversità. Qual è la situazione? «L’oceano ha assorbito circa il 30% di tutte le emissioni di CO2 presenti nell’atmosfera dall’inizio della rivoluzione industriale - per un totale di circa 150 miliardi di tonnellate. Tuttavia, questo grande servizio svolto, che ha sostanzialmente rallentato il riscaldamento globale, ha un prezzo. La CO2, quando si dissolve in acqua di mare, forma acido carbonico aumenta così l’acidità e diminuisce la capacità di molti organismi marini come coralli, plancton, crostacei e le stesse conchiglie di costruire i loro gusci e le strutture scheletriche formate maggiormente da carbonato di calcio. Un po’ come usare l’aceto per sciogliere il calcare. La cosa più allarmante è che il cambiamento di acidità negli oceani è senza precedenti in termini di grandezza e di velocità. Si mette così a serio rischio la capacità degli ecosistemi marini di adattarsi a questi cambiamenti causati da un processo che di solito si verifica naturalmente nel corso di millenni».
In questi giorni in alcune città italiane assistiamo ad una vera e propria emergenza smog, qual è il nesso con i cambiamenti cli- matici?
«Il legame è diretto. Le città ospitano la metà della popolazione mondiale e producono circa il 75% delle emissioni di gas a effetto serra. Ciononostante, le città sono anche una parte essenziale della risposta ai cambiamenti climatici offrendo molteplici opportunità per ridurre drasticamente le emissioni di CO2. La forma fisica della città determina i comportamenti dei suoi cittadini e la capacità di risposta a queste problematiche delle sue istituzioni. Ad esempio, la creazione di piste ciclabili, aree pedonali, del car e bike-sharing e la disponibilità di veicoli elettrici con una rete di punti di ricarica che utilizzano fonti energetiche rinnovabili incoraggia le persone sia ad utilizzare che a investire in queste strutture. Dal 1990, Copenaghen ha ridotto le sue emissioni di anidride carbonica di oltre il 40%, pur vivendo una crescita reale di circa il 50% dimostrando che ambiziosi obbiettivi ambientali possono andare di pari passo con la crescita economica. Il problema ha origine dai nostri comportamenti e da noi deve partire la soluzione. Non c’è speranza di ridurre le emissioni globali a livelli di sicurezza se le città non si basano su un modello di sviluppo sostenibile a lungo temine».
● Parla la biologa Mariasole Bianco: «Dalle acque metà dell’ossigeno che respiriamo»
● «Al vertice di Parigi compiuto un primo passo per la protezione dell’ambiente marino»
Gli inglesi lo chiamano ‘The Other CO2 problem’, perché se in effetti si parla molto degli effetti dell’aumento della concentrazione di CO2 sul cambiamento climatico, molto più raramente si ricorda quali siano quelli sugli oceani. Eppure si tratta della causa maggiore di acidificazione dei nostri mari. Dal periodo pre- industriale ad oggi, il livello di acidità degli oceani è aumentato del 26%.
Secondo gli scienziati, gli oceani hanno assorbito un quarto di C02 prodotto dalle attività umane in due secoli, questo fenomeno avrebbe determinato dei cambiamenti chimici tra cui la diminuzione del Ph oceanico. Il fenomeno è amplificato dal riscaldamento climatico che non fa che accelerare questa diminuzione del Ph. Le previsioni degli esperti sono davvero allarmanti: l’acidità dovrebbe aumentare di circa il 170% entro la fine del XXI secolo. Un tale aumento in un periodo così breve, non si verificava da più di trecento milioni di anni. Se le conseguenze di un tale cambiamento sono difficili da prevedere, una cosa è certa: la biodiversità nel suo insieme è minacciata. Rendendo le acque più corrosive, la modificazione del Ph produce delle conseguenze sulla fauna e sulla flora marina. I coralli e i molluschi sono tra i più a rischio.
La graduale scomparsa di questi esseri viventi potrebbe a sua volta generare altri danni collaterali: i coralli danno riparo agli organismi marini e agli ecosistemi e riducono l’impatto di eventi climatici estremi, come gli tsunami e gli uragani. E 400 milioni di esseri umani dipendono indirettamente da questi spazi naturali. Insomma, non dovrebbe essere necessario immaginare uno scenario peggiore di questo per cominciare a intervenire. Di questo tema ne parliamo con Mariasole Bianco, biologa marina, membro della Commissione mondiale delle aree protette e una delle esperte che racconterà i cambiamenti del nostro pianeta nella trasmissione “Kilimangiaro”.
Gli oceani hanno un ruolo fondamentale nella regolazione del cli- ma, cosa hanno deciso i “Grandi” della terra durante la Conferenza di Parigi su questo tema?
«Gli oceani sono il polmone del pia- neta: producono la metà dell’ossigeno che respiriamo, assorbono un quarto dell’anidride carbonica (CO2) e hanno finora assimilato circa il 90% del calore intrappolato nell’atmosfera dai gas serra. Eppure, il ruolo fondamentale degli oceani nel limitare la portata dei cambiamenti climatici non era mai stato preso in seria considerazione durante i negoziati finora intrapresi per raggiungere un accordo globale sul clima. A Parigi è stato fatto un primo piccolo passo. L’accordo prevede il riconoscimento parziale del ruolo dell’oceano e fornirà le basi per una maggiore considerazione della necessità di protezione dell’ambiente marino. Il prossimo passo è quello di portare l’oceano al centro dell’agenda e del processo decisionale nelle riunioni future attribuendogli un riconoscimento equivalente a quello delle foreste ad esempio. Ignorare l’oceano nel dibattito sui cambiamenti climatici è come cercare di trattare un solo organo per curare il collasso dell’intero sistema».
Mari ed oceani rappresentano il 71% della superficie terrestre e costituiscono una grande fonte di risorse naturali e biologiche. Come i cambiamenti climatici stanno influenzando l’oceano? «Gli impatti fisici e chimici dei cambiamenti climatici sugli oceani, sono ormai molto chiari e drammatici per la tremenda velocità in cui si stanno palesando. Questi impatti si concretizzano con un aumento della temperatura degli oceani con un riscaldamento osservato fino a una profondità di 1000 metri, lo scioglimento dei ghiacciai che provoca l’innalzamento del livello del mare, la modificazione della composizione chimica dell’oceano, le catene alimentari e la circolazione delle correnti. Tutti questi fenomeni, a loro volta, influenzano la migrazione, l’abbondanza e i cicli di riproduzione di piante e animali marini minacciando la loro stessa esistenza come nel caso dei coralli».
E poi ci sono gli impatti sociali...
«Sì è vero, le conseguenze di questi cambiamenti incidono sulla possibilità di sopravvivenza e sostentamento di milioni di persone, molte delle quali vivono in povertà, e dipendono dal mare come fonte primaria di cibo e reddito. Allo stesso tempo, le condizioni meteorologiche cambiano, con eventi estremi quali uragani e alluvioni che diventano sempre più frequenti e che uniti all’innalzamento del livello del mare già minacciano moltissimi territori insulari e potrebbero causare un esodo incalcolabile di nuovi rifugiati, i cosiddetti rifugiati ambientali».
Cresce anche l’allarme degli scienziati per i livelli record dell’acidificazione degli oceani provocati dall’aumento di CO2. Un fenomeno ancora poco conosciuto dall’opinione pubblica, ma le cui conseguenze potrebbero rappresentare una grande minaccia per la biodiversità. Qual è la situazione? «L’oceano ha assorbito circa il 30% di tutte le emissioni di CO2 presenti nell’atmosfera dall’inizio della rivoluzione industriale - per un totale di circa 150 miliardi di tonnellate. Tuttavia, questo grande servizio svolto, che ha sostanzialmente rallentato il riscaldamento globale, ha un prezzo. La CO2, quando si dissolve in acqua di mare, forma acido carbonico aumenta così l’acidità e diminuisce la capacità di molti organismi marini come coralli, plancton, crostacei e le stesse conchiglie di costruire i loro gusci e le strutture scheletriche formate maggiormente da carbonato di calcio. Un po’ come usare l’aceto per sciogliere il calcare. La cosa più allarmante è che il cambiamento di acidità negli oceani è senza precedenti in termini di grandezza e di velocità. Si mette così a serio rischio la capacità degli ecosistemi marini di adattarsi a questi cambiamenti causati da un processo che di solito si verifica naturalmente nel corso di millenni».
In questi giorni in alcune città italiane assistiamo ad una vera e propria emergenza smog, qual è il nesso con i cambiamenti cli- matici?
«Il legame è diretto. Le città ospitano la metà della popolazione mondiale e producono circa il 75% delle emissioni di gas a effetto serra. Ciononostante, le città sono anche una parte essenziale della risposta ai cambiamenti climatici offrendo molteplici opportunità per ridurre drasticamente le emissioni di CO2. La forma fisica della città determina i comportamenti dei suoi cittadini e la capacità di risposta a queste problematiche delle sue istituzioni. Ad esempio, la creazione di piste ciclabili, aree pedonali, del car e bike-sharing e la disponibilità di veicoli elettrici con una rete di punti di ricarica che utilizzano fonti energetiche rinnovabili incoraggia le persone sia ad utilizzare che a investire in queste strutture. Dal 1990, Copenaghen ha ridotto le sue emissioni di anidride carbonica di oltre il 40%, pur vivendo una crescita reale di circa il 50% dimostrando che ambiziosi obbiettivi ambientali possono andare di pari passo con la crescita economica. Il problema ha origine dai nostri comportamenti e da noi deve partire la soluzione. Non c’è speranza di ridurre le emissioni globali a livelli di sicurezza se le città non si basano su un modello di sviluppo sostenibile a lungo temine».

Meet the young ocean advocates aiming to change marine conservation for the better
Feeling excluded from traditional routes of marine protection, a new wave of young activists with an entrepreneurial spirit are going it alone and taking the future of the oceans into their own hands
“I never saw myself as a conservationist or an activist, or any of those things really,” confesses Lou Ruddell, founder of shark conservation group Fin Fighters. Despite her passion for sharks, she never wanted to emulate other conservation organisations. “It’s all about inspiring positivity and working with people in a way that is fun. And I think that’s where conservation has kind of been stalling for a really long time, because it’s not been about inspiring people to do something.”
Focused on collaboration, action-oriented and positive, Ruddell, 31, is characteristic of the new breed of young marine conservation activists who are breaking with tradition and pioneering fresh approaches to ocean protection.
The history of marine conservation is a relatively short one. While fisheries have been managed internationally for several centuries, the historical driver for this regulation was to sustain commercial fish stocks. If there were any benefits to wider ocean biodiversity, that was purely incidental.
Only in the 1970s, with the birth of the modern environmental movement, did marine conservation emerge as a discipline in its own right. This new branch of conservation science took a more holistic view of marine biodiversity, allowing room for interdisciplinary approaches to the multi-faceted problems affecting the oceans. But marine conservation has remained relatively unchanged since, with the majority of its practitioners still biological scientists and much of the funding still grant-based.
“My hope is for marine conservation to be part of our culture and for us to understand that everything is connected.”
Now, the tide is turning. The millennial generation, born between 1980 and 2000, have arrived, and they’re enthusiastic about changing the planet for the better. Strong traits in millennials have been shown to include independent-mindedness, innovative thinking, adaptability and being motivated by purpose. In the marine world, this is perhaps no better personified than by Boyan Slat, the 19-year-old Dutch student who invented The Ocean Cleanup, a device that extracts plastic pollution from the ocean. In 2014, Slat was crowned one of the Champions of the Earth, the UN’s highest environmental accolade.
But is the marine conservation world ready to embrace these young change-makers?
In early 2014, 21-year-old student Daniela Fernandez was asked to represent Georgetown University at a meeting of the UN, where she heard a speech about the state of the oceans. Alarmed not only by the severity of the crisis but also by her lack of awareness, Fernandez took a look at the rest of the audience. “As I looked around the room, I was one of the only students or young people. Which was a huge problem, because I felt like my generation was not getting this information [about the ocean]. The information, the facts, the statistics, were all being preached to the same group of people,” she says.
This experience prompted Fernandez to set up the Georgetown Sustainable Oceans Alliance (SOA). In April this year the group hosted a summit that attracted not only some very experienced high level speakers, but also over 1,000 young people from across the US. Many of the attendees have subsequently formed chapters of the SOA at their own universities. For Fernandez, this success was a validation of her concerns: “All along, it wasn’t because millennials weren’t interested in the problem, or that they don’t care, it’s because they don’t have the opportunity to be involved,” she says.
Mariasole Bianco, 30, is co-chair of the World Commission on Protected Areas Young Professionals Marine Taskforce. She believes that young people are often overlooked, which leads to them developing new approaches: “There is just one door closing after the other. But this also has a positive result, because from this frustration, and the fact that we can’t find a place in the conservation community, many people start their own organisations to make a difference in their communities.”
Skipper and ocean advocate Emily Penn, 28, agrees that this self-starter approach is vital, but that it “traditionally doesn’t necessarily exist in ocean conservation”. Despite a list of achievements that would put many older environmentalists to shame, she counts developing the conservation sailing organisation Pangea Explorations into a financially sustainable entity as probably the biggest accomplishment of her career.
As for what else separates millennials from previous generations, Penn cites access to technology and opportunity: “The world we live in now is so different from our parents’ generation and our ability to connect and communicate with one another, and the power that this gives us…is hugely significant,” she says.
Communication skills have been key to the success of non-profit campaigning organisation Save Philippine Seas, according to co-founder and ‘chief Mermaid’ Anna Oposa, 27. Trained as a musical theatre performer, she believes that her background has given her an advantage: “When you’re a scientist you’re taught to do things a certain way. But for me, I have been using my heart. I’m not scared to fail I guess, and I’m not scared of rejection,” she says.
In common with other young ocean activists, Oposa is motivated by a desire to see everyone engaged with marine conservation: “My hope is for marine conservation not to be extraordinary, and for it to be part of our culture, and for us to understand that everything is connected,” she says.
“Even if you live in the city, even if you live in a very urban jungle, it doesn’t mean that you’re not part of the sea.”
This spirit of collective endeavour is how many young people believe conservation groups should be working, as Ruddell explains: “The future of conservation is about smaller groups, working collectively and together. Because you’ve got more strength that way,” she says.
As for the future of the seas themselves, it’s easy to feel overwhelmed by the enormity of the threats that our oceans are facing. But many young marine conservationists are optimistic about what they can achieve. For Penn, the huge challenges that her generation faces are also the source of her motivation.
“We’re so lucky,” she says. “We get to solve the biggest problem, we get to change the world. We get to make the biggest difference that our species has ever had the opportunity to make.”
Feeling excluded from traditional routes of marine protection, a new wave of young activists with an entrepreneurial spirit are going it alone and taking the future of the oceans into their own hands
“I never saw myself as a conservationist or an activist, or any of those things really,” confesses Lou Ruddell, founder of shark conservation group Fin Fighters. Despite her passion for sharks, she never wanted to emulate other conservation organisations. “It’s all about inspiring positivity and working with people in a way that is fun. And I think that’s where conservation has kind of been stalling for a really long time, because it’s not been about inspiring people to do something.”
Focused on collaboration, action-oriented and positive, Ruddell, 31, is characteristic of the new breed of young marine conservation activists who are breaking with tradition and pioneering fresh approaches to ocean protection.
The history of marine conservation is a relatively short one. While fisheries have been managed internationally for several centuries, the historical driver for this regulation was to sustain commercial fish stocks. If there were any benefits to wider ocean biodiversity, that was purely incidental.
Only in the 1970s, with the birth of the modern environmental movement, did marine conservation emerge as a discipline in its own right. This new branch of conservation science took a more holistic view of marine biodiversity, allowing room for interdisciplinary approaches to the multi-faceted problems affecting the oceans. But marine conservation has remained relatively unchanged since, with the majority of its practitioners still biological scientists and much of the funding still grant-based.
“My hope is for marine conservation to be part of our culture and for us to understand that everything is connected.”
Now, the tide is turning. The millennial generation, born between 1980 and 2000, have arrived, and they’re enthusiastic about changing the planet for the better. Strong traits in millennials have been shown to include independent-mindedness, innovative thinking, adaptability and being motivated by purpose. In the marine world, this is perhaps no better personified than by Boyan Slat, the 19-year-old Dutch student who invented The Ocean Cleanup, a device that extracts plastic pollution from the ocean. In 2014, Slat was crowned one of the Champions of the Earth, the UN’s highest environmental accolade.
But is the marine conservation world ready to embrace these young change-makers?
In early 2014, 21-year-old student Daniela Fernandez was asked to represent Georgetown University at a meeting of the UN, where she heard a speech about the state of the oceans. Alarmed not only by the severity of the crisis but also by her lack of awareness, Fernandez took a look at the rest of the audience. “As I looked around the room, I was one of the only students or young people. Which was a huge problem, because I felt like my generation was not getting this information [about the ocean]. The information, the facts, the statistics, were all being preached to the same group of people,” she says.
This experience prompted Fernandez to set up the Georgetown Sustainable Oceans Alliance (SOA). In April this year the group hosted a summit that attracted not only some very experienced high level speakers, but also over 1,000 young people from across the US. Many of the attendees have subsequently formed chapters of the SOA at their own universities. For Fernandez, this success was a validation of her concerns: “All along, it wasn’t because millennials weren’t interested in the problem, or that they don’t care, it’s because they don’t have the opportunity to be involved,” she says.
Mariasole Bianco, 30, is co-chair of the World Commission on Protected Areas Young Professionals Marine Taskforce. She believes that young people are often overlooked, which leads to them developing new approaches: “There is just one door closing after the other. But this also has a positive result, because from this frustration, and the fact that we can’t find a place in the conservation community, many people start their own organisations to make a difference in their communities.”
Skipper and ocean advocate Emily Penn, 28, agrees that this self-starter approach is vital, but that it “traditionally doesn’t necessarily exist in ocean conservation”. Despite a list of achievements that would put many older environmentalists to shame, she counts developing the conservation sailing organisation Pangea Explorations into a financially sustainable entity as probably the biggest accomplishment of her career.
As for what else separates millennials from previous generations, Penn cites access to technology and opportunity: “The world we live in now is so different from our parents’ generation and our ability to connect and communicate with one another, and the power that this gives us…is hugely significant,” she says.
Communication skills have been key to the success of non-profit campaigning organisation Save Philippine Seas, according to co-founder and ‘chief Mermaid’ Anna Oposa, 27. Trained as a musical theatre performer, she believes that her background has given her an advantage: “When you’re a scientist you’re taught to do things a certain way. But for me, I have been using my heart. I’m not scared to fail I guess, and I’m not scared of rejection,” she says.
In common with other young ocean activists, Oposa is motivated by a desire to see everyone engaged with marine conservation: “My hope is for marine conservation not to be extraordinary, and for it to be part of our culture, and for us to understand that everything is connected,” she says.
“Even if you live in the city, even if you live in a very urban jungle, it doesn’t mean that you’re not part of the sea.”
This spirit of collective endeavour is how many young people believe conservation groups should be working, as Ruddell explains: “The future of conservation is about smaller groups, working collectively and together. Because you’ve got more strength that way,” she says.
As for the future of the seas themselves, it’s easy to feel overwhelmed by the enormity of the threats that our oceans are facing. But many young marine conservationists are optimistic about what they can achieve. For Penn, the huge challenges that her generation faces are also the source of her motivation.
“We’re so lucky,” she says. “We get to solve the biggest problem, we get to change the world. We get to make the biggest difference that our species has ever had the opportunity to make.”

Membro de “l’Unesco della Natura” e Presidente di Worldrise, l’intervista a Mariasole Bianco
La tua è indubbiamente una storia di successo, a soli 29 anni sei componente della Commissione Mondiale per le Aree Protette, Presidente di un’associazione no profit che si occupa di organizzare e gestire progetti per la Valorizzazione dell’Ambiente e lo scorso novembre sei stata anche protagonista al World Park Congress di Sydney. Progetti per il futuro?
I progetti per il futuro coinvolgono indubbiamente la responsabilità e l’impegno a continuare su questa strada nel portare avanti questi progetti. I temi a me più cari sono la salvaguardia del nostro mare e il coinvolgimento e la formazione delle nuove generazioni per aiutarli a diventare custodi informati e promotori di questo enorme tesoro sommerso. Per continuare su questa strada ho fondato e gestisco il gruppo dei giovani professionisti internazionali esperti di conservazione marina all’interno della Commissione Mondiale per le Aree Protette. Nel frattempo continuo a sviluppare con Worldrise progetti per la valorizzazione del Mediterraneo coinvolgendo studenti universitari e neo laureati e faccio parte di un gruppo di lavoro multidisciplinare che promuove un approccio innovativo e rivoluzionario sulla sostenibilità dell’acqua.
Leit motiv di tutto il percorso formativo e di lavoro da te fatto è la salvaguardia del mare. Come nasce questo amore?
Questo amore nasce fin da quando ero bambina. Una bambina fortunata che aveva la possibilità di passare tutto il periodo delle vacanze estive prima a Camogli, in Liguria, poi in Sardegna diventando una specie di “anfibia” sempre a piedi nudi tra rocce, scogli e maschera, boccaglio e pinne in mare. A quindici anni ho preso il mio primo brevetto subacqueo e l’amore diventa sempre più grande insieme alla consapevolezza che la bellezza del nostro mare è direttamente proporzionale alla sua fragilità. Da qui la voglia legata a un forte senso di responsabilità per divenire una delle sue voci e promuovere la conoscenza di questo ambiente tra quelli che non hanno la possibilità di vederla con i propri occhi ma raccontarne anche la fragilità e l’esigenza di proteggerlo.
Back in time. Appena laureata sei partita dall’Italia alla volta dell’Australia per specializzarti. Come mai hai scelto proprio l’Australia? E perché sei tornata?
Per rispondere a questa domanda va fatta una riflessione sulla parola specializzazione. Io ho avuto la fortuna di identificare, durante la laurea triennale, le aree marine protette come la tematica che più suscitasse il mio interesse e dunque quella che volevo approfondire. In Italia non esisteva nessuna università che offrisse un corso di laurea specialistica che mi avrebbe permesso di specializzarmi in gestione delle aree protette mentre in Australia non solo c’era questo corso ma era anche offerto da una delle migliori università al mondo per la gestione delle risorse naturali in una nazione in grado di valorizzare a pieno il suo patrimonio. Il fatto poi di fare un corso di laurea in inglese era un valore aggiunto grandissimo che mi avrebbe aperto tante porte nel futuro.
Nel 2013 hai deciso di fondare un’associazione no profit che si chiama Worldrise che nel lavoro di gestione di progetti per la valorizzazione dell’ambiente coinvolge e forma studenti e neo laureati. Come sta andando?
Sta andando bene, con tanto sudore ma anche con tante soddisfazioni. Le soddisfazioni sono legate alla valorizzazione del nostro patrimonio naturale partendo da piccole realtà che attraverso i nostri progetti si fanno portavoce di questa ricchezza diventandone allo stesso tempo custodi e utenti. L’altra grande soddisfazione riguarda i giovani studenti universitari e neolaureati che partecipano ai nostri progetti formandosi e imparando cose pratiche in maniera costruttiva e senza oneri finanziari. Siamo felici perché non solo stiamo dando delle opportunità ai giovani di crescere professionalmente ma stiamo anche formando i futuri professionisti e custodi del nostro meraviglioso patrimonio. Il sudore invece è legato al fatto che essendo una piccola organizzazione abbiamo poche risorse economiche che vengono investite tutte nei progetti mentre tutto il lavoro di organizzazione e gestione viene fatto da noi in maniera volontaria ma con professionalità e tantissima dedizione. Worldrise ha 2 progetti attivi: uno nell’area marina protetta delle Cinque Terre – Full Immersion Cinque Terre – e uno a Golfo Aranci – Il golfo dei delfini – e quest’estate lanceremo una nuova campagna chiamata Batti5 per sensibilizzare le nuove generazioni sull’inquinamento della plastica in mare.
Cosa pensi del progetto Torno Subito? Lo senti vicino alla tua esperienza?
Penso che Torno Subito sia un ottimo progetto che sento molto vicino alla mia esperienza. In particolare apprezzo di questo progetto la volontà di accompagnare in un percorso formativo professionale i ragazzi durante e dopo l’università per integrare alla loro formazione teorica conoscenze pratiche e per facilitare il loro inserimento nel mondo del lavoro. Penso che il vero valore aggiunto di questo progetto siano le due fasi del processo: la prima fuori dalla regione Lazio (in Italia e all’estero) e la seconda nella regione Lazio per favorire l’inserimento sul territorio delle competenze acquisite in altri contesti.
Ultima domanda che non è una domanda. Come finisce questa frase per Mariasole Bianco: “torno subito perché….”
Torno subito perché l’Italia ha bisogno di me.
La tua è indubbiamente una storia di successo, a soli 29 anni sei componente della Commissione Mondiale per le Aree Protette, Presidente di un’associazione no profit che si occupa di organizzare e gestire progetti per la Valorizzazione dell’Ambiente e lo scorso novembre sei stata anche protagonista al World Park Congress di Sydney. Progetti per il futuro?
I progetti per il futuro coinvolgono indubbiamente la responsabilità e l’impegno a continuare su questa strada nel portare avanti questi progetti. I temi a me più cari sono la salvaguardia del nostro mare e il coinvolgimento e la formazione delle nuove generazioni per aiutarli a diventare custodi informati e promotori di questo enorme tesoro sommerso. Per continuare su questa strada ho fondato e gestisco il gruppo dei giovani professionisti internazionali esperti di conservazione marina all’interno della Commissione Mondiale per le Aree Protette. Nel frattempo continuo a sviluppare con Worldrise progetti per la valorizzazione del Mediterraneo coinvolgendo studenti universitari e neo laureati e faccio parte di un gruppo di lavoro multidisciplinare che promuove un approccio innovativo e rivoluzionario sulla sostenibilità dell’acqua.
Leit motiv di tutto il percorso formativo e di lavoro da te fatto è la salvaguardia del mare. Come nasce questo amore?
Questo amore nasce fin da quando ero bambina. Una bambina fortunata che aveva la possibilità di passare tutto il periodo delle vacanze estive prima a Camogli, in Liguria, poi in Sardegna diventando una specie di “anfibia” sempre a piedi nudi tra rocce, scogli e maschera, boccaglio e pinne in mare. A quindici anni ho preso il mio primo brevetto subacqueo e l’amore diventa sempre più grande insieme alla consapevolezza che la bellezza del nostro mare è direttamente proporzionale alla sua fragilità. Da qui la voglia legata a un forte senso di responsabilità per divenire una delle sue voci e promuovere la conoscenza di questo ambiente tra quelli che non hanno la possibilità di vederla con i propri occhi ma raccontarne anche la fragilità e l’esigenza di proteggerlo.
Back in time. Appena laureata sei partita dall’Italia alla volta dell’Australia per specializzarti. Come mai hai scelto proprio l’Australia? E perché sei tornata?
Per rispondere a questa domanda va fatta una riflessione sulla parola specializzazione. Io ho avuto la fortuna di identificare, durante la laurea triennale, le aree marine protette come la tematica che più suscitasse il mio interesse e dunque quella che volevo approfondire. In Italia non esisteva nessuna università che offrisse un corso di laurea specialistica che mi avrebbe permesso di specializzarmi in gestione delle aree protette mentre in Australia non solo c’era questo corso ma era anche offerto da una delle migliori università al mondo per la gestione delle risorse naturali in una nazione in grado di valorizzare a pieno il suo patrimonio. Il fatto poi di fare un corso di laurea in inglese era un valore aggiunto grandissimo che mi avrebbe aperto tante porte nel futuro.
Nel 2013 hai deciso di fondare un’associazione no profit che si chiama Worldrise che nel lavoro di gestione di progetti per la valorizzazione dell’ambiente coinvolge e forma studenti e neo laureati. Come sta andando?
Sta andando bene, con tanto sudore ma anche con tante soddisfazioni. Le soddisfazioni sono legate alla valorizzazione del nostro patrimonio naturale partendo da piccole realtà che attraverso i nostri progetti si fanno portavoce di questa ricchezza diventandone allo stesso tempo custodi e utenti. L’altra grande soddisfazione riguarda i giovani studenti universitari e neolaureati che partecipano ai nostri progetti formandosi e imparando cose pratiche in maniera costruttiva e senza oneri finanziari. Siamo felici perché non solo stiamo dando delle opportunità ai giovani di crescere professionalmente ma stiamo anche formando i futuri professionisti e custodi del nostro meraviglioso patrimonio. Il sudore invece è legato al fatto che essendo una piccola organizzazione abbiamo poche risorse economiche che vengono investite tutte nei progetti mentre tutto il lavoro di organizzazione e gestione viene fatto da noi in maniera volontaria ma con professionalità e tantissima dedizione. Worldrise ha 2 progetti attivi: uno nell’area marina protetta delle Cinque Terre – Full Immersion Cinque Terre – e uno a Golfo Aranci – Il golfo dei delfini – e quest’estate lanceremo una nuova campagna chiamata Batti5 per sensibilizzare le nuove generazioni sull’inquinamento della plastica in mare.
Cosa pensi del progetto Torno Subito? Lo senti vicino alla tua esperienza?
Penso che Torno Subito sia un ottimo progetto che sento molto vicino alla mia esperienza. In particolare apprezzo di questo progetto la volontà di accompagnare in un percorso formativo professionale i ragazzi durante e dopo l’università per integrare alla loro formazione teorica conoscenze pratiche e per facilitare il loro inserimento nel mondo del lavoro. Penso che il vero valore aggiunto di questo progetto siano le due fasi del processo: la prima fuori dalla regione Lazio (in Italia e all’estero) e la seconda nella regione Lazio per favorire l’inserimento sul territorio delle competenze acquisite in altri contesti.
Ultima domanda che non è una domanda. Come finisce questa frase per Mariasole Bianco: “torno subito perché….”
Torno subito perché l’Italia ha bisogno di me.

La biologa marina "sbocciata" in Australia
Mariasole Bianco fa parte della Commissione mondiale delle aree protette. A nominarla non sono state le autorità italiane ma la Commissione stessa come riconoscimento delle sue capacità
Mariasole Bianco ha 29 anni, una laurea in biologia marina e un master a Cairns (Australia). La sua più grande passione è il mare, o meglio, la difesa del mare. Per questo nel 2013 ha fondato Worldrise, un'associazione no profit che crea e promuove progetti per la tutela dell'ambiente marino, coinvolgendo giovani studenti e neolaureati.
Mariasole ha una storia molto particolare da raccontarci. Iniziamo dalla fine. Da più di un anno fa parte della Commissione mondiale delle aree protette (Wcpa). Lo scorso mese di novembre ha partecipato al congresso decennale sui Parchi e le aree protette, svoltosi aSydney, con migliaia di delegati di tutte le aree poste sotto tutela nel pianeta.
La nostra giovane biologa fa parte della Commissione mondiale non perché sia stata nominata o segnalata da istituzioni italiane, che quasi ignorano la sua esistenza. A volerla in quell'organismo è stata la Commissione stessa, per le capacità e le conoscenze che Mariasole ha sviluppato nel tempo. In Australia Mariasole ha fatto quattro interventi ed è stata una delle figure chiave dei giovani professionisti dell'Iucn (International Union for the Conservation of Nature).
Dopo essersi laureata a Genova, ha individuato il suo percorso nell'ambito della “decision making”, trattando l'aspetto manageriale nella gestione delle risorse naturali. In Italia vi sono ben 27 aree marine protette e due parchi sommersi, con oltre 700 km di costa tutelati. “Quello che manca – spiega Mariasole – sono le competenze e le professionalità specifiche per la loro gestione. Per questo motivo, da area ad area, c'è un divario grandissimo nell'efficacia della gestione”. E la mancanza di un punto di vista manageriale, unita al fatto che i fondi destinati dallo Stato sono ridotti al minimo, determina il risultato che tutti possiamo immaginare.
Al test d'ingresso per un master finanziato dall'Ue sulle aree marine protette, Mariasole ottiene uno dei punteggi più alti: 50 punti come conoscenze (su 50) e 25 sul progetto presentato (sue 25). Nella prova psicoattitudinale, però, arriva la doccia fredda: le danno zero (su 25). Neanche un punto. Ma cosa ha combinato per meritare una simile bocciatura? È stata troppo sincera: parlando delle proprie aspirazioni ha detto di voler lavorare, un giorno, al ministero dell'Ambiente.
“Se avessi risposto di volersi occupare delle certificazioni delle acque probabilmente mi avrebbero dato 25”. Ma il suo puntare troppo in alto non ha pagato. “Chissà come l'avrebbero presa se avessi detto di voler lavorar nella Commissione mondiale sulle aree protette, dove oggi effettivamente siedo”. Una ragazza preparata e determinata è stata bocciata perché aveva aspirazioni troppo alte. Meno male che all'estero hanno dimostrato di apprezzare le qualità di Mariasole, che evidentemente faceva bene ad essere così ambiziosa.
La giovane biologa non si è persa d'animo e oggi, guardandosi indietro, ringrazia la psicologa che ne stroncò sul nascere le velleità: “Grazie a lei ho potuto fare un'esperienza che mai mi sarei sognata”. Per completare gli studi, infatti, Mariasole è partita per l'Australia e ha seguito un corso di laurea specialistica indirizzata alla gestione delle aree protette. Dopo il master in Australia, lavora al progetto “Coral Sea”, una campagna per l'istituzione dell'area marina protetta più grande del mondo (superficie pari a quella di Francia, Regno Unito e Italia messe insieme), che ha coinvolto pescatori, istituzioni, centri d'immersione, industria turistica e terzo settore.
Poi dà vita a Worldrise, la no profit che opera su due fronti: quello della comunicazione e dell'educazione per la conservazione delle risorse ittiche e le condizioni del mare; e il coinvolgimento dei giovani per la corretta gestione delle risorse marine, non come mera tutela fine a se stessa, ma nell'ambito di uno sviluppo sostenibile che crei ricchezza e opportunità per tutti.
Mariasole ha viaggiato e lavorato all'estero. Ha fatto sacrifici (in Australia per mantenersi agli studi faceva la babysitter e insegnava inglese agli italiani). Non ha problemi a immaginare il suo futuro professionale all'estero. Anche se vorrebbe lavorare in Italia per portare il suo “know-how” al suo Paese e far crescere altri giovani che abbiano voglia di seguireil suo percorso. Restare in Italia con questo tipo di lavoro è dura, specie in questo periodo. Lei lo sa, ma non demorde: “Vorrei farcela, mi sto muovendo anche a livello europeo, con varie associazioni e organizzazioni”. La sua associazione vive di donazioni (aperitivi, cene, mercatini). In più ci sono i progetti europei, i cui fondi bisogna essere bravi a saper cogliere. L'Italia in questo ha un record negativo. Ma c'è un limite: l'Ue cofinanzia fino al 60%, il restante 40% di risorse bisogna trovarlo in altro modo.
A chi le dà dell'idealista, mettendo in rilievo la sua presunta scarsa concretezza, lei risponde così: “In Francia su cento aree marine protette ogni euro investito dallo Stato ne porta 92 alla comunità. Dire che è un investimento ottimo è sin troppo riduttivo”. Difficile darle torto. L'importante è far partire quel circolo virtuoso in grado di valorizzare (non solo cionservare) al meglio il nostro patrimonio. E il discorso vale per la natura ma anche per la cultura e l'arte.
Prossimo appuntamento in giro per il mondo? Nel 2017 in Cile, per la Conferenza mondiale sulle aree marine protette. Mariasole ovviamente ci sarà. Con lei i giovani italiani sono pronti a far sentire, forte, la propria voce.
Leggi anche: I cervelli emigrati all'estero: "Italia devi svegliarti"
Si fa presto a dire “cervelli in fuga”: ilGiornale.it vi racconta gli italiani che ce l'hanno fatta (all'estero)
Mariasole Bianco fa parte della Commissione mondiale delle aree protette. A nominarla non sono state le autorità italiane ma la Commissione stessa come riconoscimento delle sue capacità
Mariasole Bianco ha 29 anni, una laurea in biologia marina e un master a Cairns (Australia). La sua più grande passione è il mare, o meglio, la difesa del mare. Per questo nel 2013 ha fondato Worldrise, un'associazione no profit che crea e promuove progetti per la tutela dell'ambiente marino, coinvolgendo giovani studenti e neolaureati.
Mariasole ha una storia molto particolare da raccontarci. Iniziamo dalla fine. Da più di un anno fa parte della Commissione mondiale delle aree protette (Wcpa). Lo scorso mese di novembre ha partecipato al congresso decennale sui Parchi e le aree protette, svoltosi aSydney, con migliaia di delegati di tutte le aree poste sotto tutela nel pianeta.
La nostra giovane biologa fa parte della Commissione mondiale non perché sia stata nominata o segnalata da istituzioni italiane, che quasi ignorano la sua esistenza. A volerla in quell'organismo è stata la Commissione stessa, per le capacità e le conoscenze che Mariasole ha sviluppato nel tempo. In Australia Mariasole ha fatto quattro interventi ed è stata una delle figure chiave dei giovani professionisti dell'Iucn (International Union for the Conservation of Nature).
Dopo essersi laureata a Genova, ha individuato il suo percorso nell'ambito della “decision making”, trattando l'aspetto manageriale nella gestione delle risorse naturali. In Italia vi sono ben 27 aree marine protette e due parchi sommersi, con oltre 700 km di costa tutelati. “Quello che manca – spiega Mariasole – sono le competenze e le professionalità specifiche per la loro gestione. Per questo motivo, da area ad area, c'è un divario grandissimo nell'efficacia della gestione”. E la mancanza di un punto di vista manageriale, unita al fatto che i fondi destinati dallo Stato sono ridotti al minimo, determina il risultato che tutti possiamo immaginare.
Al test d'ingresso per un master finanziato dall'Ue sulle aree marine protette, Mariasole ottiene uno dei punteggi più alti: 50 punti come conoscenze (su 50) e 25 sul progetto presentato (sue 25). Nella prova psicoattitudinale, però, arriva la doccia fredda: le danno zero (su 25). Neanche un punto. Ma cosa ha combinato per meritare una simile bocciatura? È stata troppo sincera: parlando delle proprie aspirazioni ha detto di voler lavorare, un giorno, al ministero dell'Ambiente.
“Se avessi risposto di volersi occupare delle certificazioni delle acque probabilmente mi avrebbero dato 25”. Ma il suo puntare troppo in alto non ha pagato. “Chissà come l'avrebbero presa se avessi detto di voler lavorar nella Commissione mondiale sulle aree protette, dove oggi effettivamente siedo”. Una ragazza preparata e determinata è stata bocciata perché aveva aspirazioni troppo alte. Meno male che all'estero hanno dimostrato di apprezzare le qualità di Mariasole, che evidentemente faceva bene ad essere così ambiziosa.
La giovane biologa non si è persa d'animo e oggi, guardandosi indietro, ringrazia la psicologa che ne stroncò sul nascere le velleità: “Grazie a lei ho potuto fare un'esperienza che mai mi sarei sognata”. Per completare gli studi, infatti, Mariasole è partita per l'Australia e ha seguito un corso di laurea specialistica indirizzata alla gestione delle aree protette. Dopo il master in Australia, lavora al progetto “Coral Sea”, una campagna per l'istituzione dell'area marina protetta più grande del mondo (superficie pari a quella di Francia, Regno Unito e Italia messe insieme), che ha coinvolto pescatori, istituzioni, centri d'immersione, industria turistica e terzo settore.
Poi dà vita a Worldrise, la no profit che opera su due fronti: quello della comunicazione e dell'educazione per la conservazione delle risorse ittiche e le condizioni del mare; e il coinvolgimento dei giovani per la corretta gestione delle risorse marine, non come mera tutela fine a se stessa, ma nell'ambito di uno sviluppo sostenibile che crei ricchezza e opportunità per tutti.
Mariasole ha viaggiato e lavorato all'estero. Ha fatto sacrifici (in Australia per mantenersi agli studi faceva la babysitter e insegnava inglese agli italiani). Non ha problemi a immaginare il suo futuro professionale all'estero. Anche se vorrebbe lavorare in Italia per portare il suo “know-how” al suo Paese e far crescere altri giovani che abbiano voglia di seguireil suo percorso. Restare in Italia con questo tipo di lavoro è dura, specie in questo periodo. Lei lo sa, ma non demorde: “Vorrei farcela, mi sto muovendo anche a livello europeo, con varie associazioni e organizzazioni”. La sua associazione vive di donazioni (aperitivi, cene, mercatini). In più ci sono i progetti europei, i cui fondi bisogna essere bravi a saper cogliere. L'Italia in questo ha un record negativo. Ma c'è un limite: l'Ue cofinanzia fino al 60%, il restante 40% di risorse bisogna trovarlo in altro modo.
A chi le dà dell'idealista, mettendo in rilievo la sua presunta scarsa concretezza, lei risponde così: “In Francia su cento aree marine protette ogni euro investito dallo Stato ne porta 92 alla comunità. Dire che è un investimento ottimo è sin troppo riduttivo”. Difficile darle torto. L'importante è far partire quel circolo virtuoso in grado di valorizzare (non solo cionservare) al meglio il nostro patrimonio. E il discorso vale per la natura ma anche per la cultura e l'arte.
Prossimo appuntamento in giro per il mondo? Nel 2017 in Cile, per la Conferenza mondiale sulle aree marine protette. Mariasole ovviamente ci sarà. Con lei i giovani italiani sono pronti a far sentire, forte, la propria voce.
Leggi anche: I cervelli emigrati all'estero: "Italia devi svegliarti"
Si fa presto a dire “cervelli in fuga”: ilGiornale.it vi racconta gli italiani che ce l'hanno fatta (all'estero)

Ventimila idee sotto il mare
Google che mappa i fondali, barriere mobili per pulire le onde, droni che sorvegliano la pesca. Così la scienza aiuta a salvare gli oceani.
Nell’ottobre del 2012, ad appena 17 anni, un teenager olandese di Delft disse di aver ideato un marchingegno che avrebbe ripulito gli oceani di oltre 20 milioni di tonnellate di plastica, e in perfetto inglese lo presentò durante una videoconferenza internazionale TED.
Oggi Boyan Slat studia Ingegneria aerospaziale all’università ed è molto vicino a veder avverare il suo sogno. A giugno, insieme a 70 scienziati e ingegneri, ha realizzato uno studio di fattibilità lungo 530 pagine.
Nel frattempo ha già raccolto due milioni di dollari tramite il crowdfunding, le donazioni online, arrivate da 38mila persone di 160 Paesi diversi, ed entro un anno dovrebbe finalmente costruire i primi prototipi del suo Ocean Cleanup Array. Si tratta di barriere galleggianti a forma di V ancorate al fondale marino, da collocare lungo i corsi delle correnti oceaniche e in grado sia di raccogliere la plastica, consentendone il riciclo, sia di farsi attraversare senza rischi da pesci e plancton.
Boyan Slat, comunque, è tutt’altro che solo nella sua battaglia. In tutto il mondo studiosi e multinazionali stanno provando a salvare gli oceani a colpi di tecnologia.
La società più impegnata in questo senso è sicuramente Google. «Ha unito le forze con le grandi organizzazioni di conservazioneambientale e sta creando degli strumenti rivoluzionari», ci racconta la ricercatrice Mariasole Bianco, 29 anni, un’altra giovane che sta dedicando tutta se stessa al futuro degli oceani. Si è laureata a Genova in Scienze ambientali e ha preso un master in Australia. Membro della Commissione mondiale aree protette dello Iucn («come dire l’Unesco della natura»), è appena tornata in Italia, dove ha fondato un’associazione no profit, Worldrise, che «crea e promuove progetti per la tutela dell’ambiente marino, due dei quali già attivati alle Cinque Terre e in Sardegna a Golfo Aranci, tutti coordinati e realizzati coinvolgendo studenti e neolaureati italiani». «Recenti studi scientifici, anche della Fao, lanciano l’allarme, perché a causa della pesca intensiva il 90 per cento dei grandi pesci sono scomparsi, e corriamo il rischio di arrivare al collasso di tutte le specie pescabili in meno di 40 anni», spiega Mariasole: «I mari sono tanto belli quanto fragili, ma il loro degrado, a differenza di quello della terra, non è sotto i nostri occhi.
Gli oceani, dei cui tesori conosciamo solo il 5 per cento, coprono una superficie pari al 71 per cento del nostro pianeta e ospitano quattro specie viventi su cinque. Generano più dei due terzi dell’ossigeno che respiriamo, regolano il clima, assorbono la maggior parte dell’anidride carbonica da noi prodotta e sono, per metà della popolazione mondiale, un’importantissima fonte di cibo, energia e reddito. La loro protezione, peraltro, può rappresentare anche un valore economico e sociale grazie all’ecoturismo». A novembre, durante il World Parks Congress di Sydney, cui Mariasole ha partecipato come relatrice, Google ha presentato un upgrade di una delle sue meraviglie, Google Ocean, che integrandosi a Google Earth già ci permetteva di esaminare in maniera dettagliata qualsiasi parte della superficie terrestre, compresi vulcani sommersi e piane abissali: «Ora, grazie a una collaborazione con l’organizzazione Catlin Seaview, offre anche la possibilità di utilizzare per l’oceano una funzione simile a quella di Street View. In questo modo chiunque può virtualmente immergersi ed esplorare relitti, barriere coralline e nuotare con delfini e foche, scoprendo così le bellezze del mondo sommerso. È uno strumento che permetterà anche di fornire aggiornamenti sui cambiamenti climatici ed è molto importante per gli studi scientifici e la conservazione degli oceani».
Ma Google non si è fermata qui. In collaborazione con Oceana e Sky Truth ha creato il Global Fishing Watch, che punta a risolvere problemi come quello di Kiribati, isola-nazione del Pacifico. Dal primo gennaio Kiribati ha bandito la pesca commerciale nella Phoenix Islands Protected Area, una zona protetta grande 2,5 milioni di miglia quadrate. Ma chi può controllare che il divieto sia rispettato? I famosi big data. Il Global Fishing Watch è infatti una piattaforma che elabora diversi dati, come quelli satellitari e quelli Ais, ovvero il sistema di identificazione automatica utilizzato obbligatoriamente dalle navi di una certa grandezza. Al momento è solo un prototipo, ma quando sarà operativo a tutti gli effetti, cioè forse tra un anno, il Global Fishing Watch potrà contribuire a combattere la pesca illegale, che costa all’economia globale oltre 23 miliardi di dollari ogni anno, perché non solo i governi e le ong, ma chiunque abbia internet potrà sorvegliare di persona gli oceani per segnalare le barche che pescano nelle riserve. Ne sa già qualcosa il peschereccio colombiano Marta Lucia R. La Colombia ha chiesto alla Commissione internazionale intermericana per il tonno tropicale di toglierlo dopo sette anni dalla blacklist, perché a suo dire dal 2012 non avrebbe mai lasciato il porto di Cartagena. Proprio il Global Fishing Watch ha dimostrato però che non era vero, che anzi nell’agosto del 2012 l’imbarcazione aveva smesso di comunicare i dati Ais dopo aver attraversato il canale di Panama. E sono tante altre le invenzioni che stanno cambiando il rapporto tra uomo e oceano. I ricercatori della Drexel University di Philadelphia usano il Gps per controllare che le tartarughe liuto del Pacifico non vengano uccise per errore dai pescherecci. È stata anche inventata una app per smartphone, Mpa Guardian, per segnalare la pesca illegale in California.
E gli scienziati della società DuPont hanno prodotto un lievito geneticamente modificato, essenziale per la salute umana, che prima si poteva ottenere solo tramite i pesci. «Negli ultimi anni la tecnologia è diventata un nostro alleato straordinario», ci spiega Dan Laffoley, esperto globale di conservazione marina e vicepresidente della Commissione mondiale per le aree protette dello Iucn. Dalle mappe di Google alle app che permettono di interagire con l’oceano, fino ai mini-sottomarini che studiano il clima nelle acque, la tecnologia va così veloce che «nel prossimo decennio potremmo raccogliere più informazioni di quante abbiamo accumulato in tutto il secolo scorso». L’uomo potrà dunque contare su un alleato prezioso in una battaglia che fino a poco tempo fa non credeva di dover combattere. «Cinque anni fa avrei detto che la minaccia più grave per gli oceani fossero l’inquinamento e la pesca eccessiva, ma oggi si sta avvicinando una tempesta silenziosa, frutto del cambiamento climatico e dell’aumento dell’anidride carbonica nell’atmosfera. Questi fattori stanno aumentando il riscaldamento e l’acidificazione degli oceani, rendendoli ambienti sempre meno adatti alla vita delle specie, che siano molluschi oppure ostriche, come sta già succedendo nella West Coast americana o in Cile», racconta Laffoley: «Stiamo modificando la chimica degli oceani a nostro rischio e pericolo. Dobbiamo sbrigarci se vogliamo salvare il cuore blu del pianeta».
ROBOT IN IMMERSIONE
Si parla di nuove tecnologie e oceani, e tra i protagonisti non poteva che esserci anche lui, il drone, che promette di diventare il nuovo satellite dei mari. Il Wave Glider, sviluppato dalla startup californiana Liquid Robotics, è composto da due parti: una specie di tavola da surf che sta in superficie e immagazzina energia solare e, cinque metri sotto, collegato via cavo, un drone con alette. Il Wave Glider raccoglie in pieno oceano informazioni ambientali sofisticate, legate per esempio al moto delle onde, con cui sa prevedere l’arrivo di tifoni e uragani. Ma potrà essere utilizzato anche per capire quel 95% di oceani ancora inesplorati. E misurerà o i livelli di acidificazione e i danni ambientali, monitorando le specie. Gli esperti segnalano che un uso sempre più diffuso dei droni permetterebbe di intervenire più rapidamente nel contrasto delle attività illegali o nelle operazioni di soccorso. E, se dotati di webcam, quei robot possono anche suscitare nei giovani l’amore per gli oceani. DANIELE CASTELLANI PERELLI
Google che mappa i fondali, barriere mobili per pulire le onde, droni che sorvegliano la pesca. Così la scienza aiuta a salvare gli oceani.
Nell’ottobre del 2012, ad appena 17 anni, un teenager olandese di Delft disse di aver ideato un marchingegno che avrebbe ripulito gli oceani di oltre 20 milioni di tonnellate di plastica, e in perfetto inglese lo presentò durante una videoconferenza internazionale TED.
Oggi Boyan Slat studia Ingegneria aerospaziale all’università ed è molto vicino a veder avverare il suo sogno. A giugno, insieme a 70 scienziati e ingegneri, ha realizzato uno studio di fattibilità lungo 530 pagine.
Nel frattempo ha già raccolto due milioni di dollari tramite il crowdfunding, le donazioni online, arrivate da 38mila persone di 160 Paesi diversi, ed entro un anno dovrebbe finalmente costruire i primi prototipi del suo Ocean Cleanup Array. Si tratta di barriere galleggianti a forma di V ancorate al fondale marino, da collocare lungo i corsi delle correnti oceaniche e in grado sia di raccogliere la plastica, consentendone il riciclo, sia di farsi attraversare senza rischi da pesci e plancton.
Boyan Slat, comunque, è tutt’altro che solo nella sua battaglia. In tutto il mondo studiosi e multinazionali stanno provando a salvare gli oceani a colpi di tecnologia.
La società più impegnata in questo senso è sicuramente Google. «Ha unito le forze con le grandi organizzazioni di conservazioneambientale e sta creando degli strumenti rivoluzionari», ci racconta la ricercatrice Mariasole Bianco, 29 anni, un’altra giovane che sta dedicando tutta se stessa al futuro degli oceani. Si è laureata a Genova in Scienze ambientali e ha preso un master in Australia. Membro della Commissione mondiale aree protette dello Iucn («come dire l’Unesco della natura»), è appena tornata in Italia, dove ha fondato un’associazione no profit, Worldrise, che «crea e promuove progetti per la tutela dell’ambiente marino, due dei quali già attivati alle Cinque Terre e in Sardegna a Golfo Aranci, tutti coordinati e realizzati coinvolgendo studenti e neolaureati italiani». «Recenti studi scientifici, anche della Fao, lanciano l’allarme, perché a causa della pesca intensiva il 90 per cento dei grandi pesci sono scomparsi, e corriamo il rischio di arrivare al collasso di tutte le specie pescabili in meno di 40 anni», spiega Mariasole: «I mari sono tanto belli quanto fragili, ma il loro degrado, a differenza di quello della terra, non è sotto i nostri occhi.
Gli oceani, dei cui tesori conosciamo solo il 5 per cento, coprono una superficie pari al 71 per cento del nostro pianeta e ospitano quattro specie viventi su cinque. Generano più dei due terzi dell’ossigeno che respiriamo, regolano il clima, assorbono la maggior parte dell’anidride carbonica da noi prodotta e sono, per metà della popolazione mondiale, un’importantissima fonte di cibo, energia e reddito. La loro protezione, peraltro, può rappresentare anche un valore economico e sociale grazie all’ecoturismo». A novembre, durante il World Parks Congress di Sydney, cui Mariasole ha partecipato come relatrice, Google ha presentato un upgrade di una delle sue meraviglie, Google Ocean, che integrandosi a Google Earth già ci permetteva di esaminare in maniera dettagliata qualsiasi parte della superficie terrestre, compresi vulcani sommersi e piane abissali: «Ora, grazie a una collaborazione con l’organizzazione Catlin Seaview, offre anche la possibilità di utilizzare per l’oceano una funzione simile a quella di Street View. In questo modo chiunque può virtualmente immergersi ed esplorare relitti, barriere coralline e nuotare con delfini e foche, scoprendo così le bellezze del mondo sommerso. È uno strumento che permetterà anche di fornire aggiornamenti sui cambiamenti climatici ed è molto importante per gli studi scientifici e la conservazione degli oceani».
Ma Google non si è fermata qui. In collaborazione con Oceana e Sky Truth ha creato il Global Fishing Watch, che punta a risolvere problemi come quello di Kiribati, isola-nazione del Pacifico. Dal primo gennaio Kiribati ha bandito la pesca commerciale nella Phoenix Islands Protected Area, una zona protetta grande 2,5 milioni di miglia quadrate. Ma chi può controllare che il divieto sia rispettato? I famosi big data. Il Global Fishing Watch è infatti una piattaforma che elabora diversi dati, come quelli satellitari e quelli Ais, ovvero il sistema di identificazione automatica utilizzato obbligatoriamente dalle navi di una certa grandezza. Al momento è solo un prototipo, ma quando sarà operativo a tutti gli effetti, cioè forse tra un anno, il Global Fishing Watch potrà contribuire a combattere la pesca illegale, che costa all’economia globale oltre 23 miliardi di dollari ogni anno, perché non solo i governi e le ong, ma chiunque abbia internet potrà sorvegliare di persona gli oceani per segnalare le barche che pescano nelle riserve. Ne sa già qualcosa il peschereccio colombiano Marta Lucia R. La Colombia ha chiesto alla Commissione internazionale intermericana per il tonno tropicale di toglierlo dopo sette anni dalla blacklist, perché a suo dire dal 2012 non avrebbe mai lasciato il porto di Cartagena. Proprio il Global Fishing Watch ha dimostrato però che non era vero, che anzi nell’agosto del 2012 l’imbarcazione aveva smesso di comunicare i dati Ais dopo aver attraversato il canale di Panama. E sono tante altre le invenzioni che stanno cambiando il rapporto tra uomo e oceano. I ricercatori della Drexel University di Philadelphia usano il Gps per controllare che le tartarughe liuto del Pacifico non vengano uccise per errore dai pescherecci. È stata anche inventata una app per smartphone, Mpa Guardian, per segnalare la pesca illegale in California.
E gli scienziati della società DuPont hanno prodotto un lievito geneticamente modificato, essenziale per la salute umana, che prima si poteva ottenere solo tramite i pesci. «Negli ultimi anni la tecnologia è diventata un nostro alleato straordinario», ci spiega Dan Laffoley, esperto globale di conservazione marina e vicepresidente della Commissione mondiale per le aree protette dello Iucn. Dalle mappe di Google alle app che permettono di interagire con l’oceano, fino ai mini-sottomarini che studiano il clima nelle acque, la tecnologia va così veloce che «nel prossimo decennio potremmo raccogliere più informazioni di quante abbiamo accumulato in tutto il secolo scorso». L’uomo potrà dunque contare su un alleato prezioso in una battaglia che fino a poco tempo fa non credeva di dover combattere. «Cinque anni fa avrei detto che la minaccia più grave per gli oceani fossero l’inquinamento e la pesca eccessiva, ma oggi si sta avvicinando una tempesta silenziosa, frutto del cambiamento climatico e dell’aumento dell’anidride carbonica nell’atmosfera. Questi fattori stanno aumentando il riscaldamento e l’acidificazione degli oceani, rendendoli ambienti sempre meno adatti alla vita delle specie, che siano molluschi oppure ostriche, come sta già succedendo nella West Coast americana o in Cile», racconta Laffoley: «Stiamo modificando la chimica degli oceani a nostro rischio e pericolo. Dobbiamo sbrigarci se vogliamo salvare il cuore blu del pianeta».
ROBOT IN IMMERSIONE
Si parla di nuove tecnologie e oceani, e tra i protagonisti non poteva che esserci anche lui, il drone, che promette di diventare il nuovo satellite dei mari. Il Wave Glider, sviluppato dalla startup californiana Liquid Robotics, è composto da due parti: una specie di tavola da surf che sta in superficie e immagazzina energia solare e, cinque metri sotto, collegato via cavo, un drone con alette. Il Wave Glider raccoglie in pieno oceano informazioni ambientali sofisticate, legate per esempio al moto delle onde, con cui sa prevedere l’arrivo di tifoni e uragani. Ma potrà essere utilizzato anche per capire quel 95% di oceani ancora inesplorati. E misurerà o i livelli di acidificazione e i danni ambientali, monitorando le specie. Gli esperti segnalano che un uso sempre più diffuso dei droni permetterebbe di intervenire più rapidamente nel contrasto delle attività illegali o nelle operazioni di soccorso. E, se dotati di webcam, quei robot possono anche suscitare nei giovani l’amore per gli oceani. DANIELE CASTELLANI PERELLI

Un’italiana al vertice delle riserve naturali. Ma l’italia non lo sa.
i mari e le aree protette sono a rischio e una giovane studiosa italiana del mare, mariasole bianco, è tra i più importanti esperti mondiali nella loro gestione e difesa.
più dell’85% dei pesci sono messi a rischio dalla pesca eccessiva (l’altra settimana in un articolo descrivevo la flotta dei colossali pescherecci predatori del mare, che puoi leggere cliccando qui) e a causa dell’inquinamento ci sono più di 500 zone nell’oceano dove la vita non può più esistere.
Sono stati distrutti ambienti essenziali nel ciclo di vita delle specie, trasformati in distese fangose; i cambiamenti climatici stanno cambiando la chimica base del mare a una velocità impressionante.
In questi giorni la ricercatrice mariasole bianco è a sydney come componente della commissione delle aree protette per il congresso mondiale decennale sui parchi (il precedente congresso si era svolto nel 2003 a Durban).
Il congresso chiuderà domani ed è organizzato dalla commissione mondiale aree protette, nota anche con l’acronimo wcpa, una delle sei commissioni dell’unione internazionale per la conservazione della natura (international union for the conservation of nature – iucn).
Durante il congresso, che finirà domani, sono presenti migliaia di delegati di tutte le aree naturali protette del mondo.
Quello che in italia pochi sanno è che un’italiana è componente della commissione mondiale, nominata non da istituzioni italiane, che come è tristemente ovvio quasi ignorano della sua esistenza, ma dalla commissione mondiale.
all’interno della commissione mondiale per le aree protette, mariasole fa parte del gruppo per la conservazione marina ed è una delle figure chiave dei giovani professionisti iucn. durante il congresso mondiale tiene quattro interventi.
Chi è mariasole bianco?
29 anni, subacquea provetta, appassionata di biologia del mare, tema nel quale si è laureata a genova in scienze ambientali (indirizzo in gestione e conservazione dell’ambiente marino). ha studiato in particolare l’integrazione fra conoscenze scientifiche e leggi ambientali, la cosiddetta “decision making”, sebbene si sappia benissimo che tanto poi non ci saranno fondi per la ricerca. le discipline attorno alla “decision making” e la gestione delle risorse naturali meriterebbero maggiore attenzione in italia, visto che abbiamo 27 aree marine protette (oltre a 2 parchi sommersi) che tutelano circa 228mila ettari di mare e 700 chilometri di costa (clicca qui).
Mariasole poi ha studiato in australia (laurea specialistica in gestione delle aree protette), ha partecipato a programmi internazionali come coral sea (la campagna per l’istituzione dell’area marina protetta più vasta del mondo, con una superficie pari a quella di francia, regno unito e italia) e ha fondato in italia un’associazione no profit, worldrise. da due anni mariasole bianco è membro della commissione mondiale aree protette.
i mari e le aree protette sono a rischio e una giovane studiosa italiana del mare, mariasole bianco, è tra i più importanti esperti mondiali nella loro gestione e difesa.
più dell’85% dei pesci sono messi a rischio dalla pesca eccessiva (l’altra settimana in un articolo descrivevo la flotta dei colossali pescherecci predatori del mare, che puoi leggere cliccando qui) e a causa dell’inquinamento ci sono più di 500 zone nell’oceano dove la vita non può più esistere.
Sono stati distrutti ambienti essenziali nel ciclo di vita delle specie, trasformati in distese fangose; i cambiamenti climatici stanno cambiando la chimica base del mare a una velocità impressionante.
In questi giorni la ricercatrice mariasole bianco è a sydney come componente della commissione delle aree protette per il congresso mondiale decennale sui parchi (il precedente congresso si era svolto nel 2003 a Durban).
Il congresso chiuderà domani ed è organizzato dalla commissione mondiale aree protette, nota anche con l’acronimo wcpa, una delle sei commissioni dell’unione internazionale per la conservazione della natura (international union for the conservation of nature – iucn).
Durante il congresso, che finirà domani, sono presenti migliaia di delegati di tutte le aree naturali protette del mondo.
Quello che in italia pochi sanno è che un’italiana è componente della commissione mondiale, nominata non da istituzioni italiane, che come è tristemente ovvio quasi ignorano della sua esistenza, ma dalla commissione mondiale.
all’interno della commissione mondiale per le aree protette, mariasole fa parte del gruppo per la conservazione marina ed è una delle figure chiave dei giovani professionisti iucn. durante il congresso mondiale tiene quattro interventi.
Chi è mariasole bianco?
29 anni, subacquea provetta, appassionata di biologia del mare, tema nel quale si è laureata a genova in scienze ambientali (indirizzo in gestione e conservazione dell’ambiente marino). ha studiato in particolare l’integrazione fra conoscenze scientifiche e leggi ambientali, la cosiddetta “decision making”, sebbene si sappia benissimo che tanto poi non ci saranno fondi per la ricerca. le discipline attorno alla “decision making” e la gestione delle risorse naturali meriterebbero maggiore attenzione in italia, visto che abbiamo 27 aree marine protette (oltre a 2 parchi sommersi) che tutelano circa 228mila ettari di mare e 700 chilometri di costa (clicca qui).
Mariasole poi ha studiato in australia (laurea specialistica in gestione delle aree protette), ha partecipato a programmi internazionali come coral sea (la campagna per l’istituzione dell’area marina protetta più vasta del mondo, con una superficie pari a quella di francia, regno unito e italia) e ha fondato in italia un’associazione no profit, worldrise. da due anni mariasole bianco è membro della commissione mondiale aree protette.

Boom aree protette mondo (+58%), servono 76 mld per salvarle.
Via al congresso mondiale Iucn, obiettivo agenda conservazione (ANSA) - ROMA, 12 NOV -
"
I leader mondiali talvolta non vedono quanto sia essenziale per l'umanità proteggere la natura", ha detto oggi la direttrice generale dell'IUCN, Julia Marton-Lefèvre. "In un pianeta con 7 miliardi di persone, che vanno verso i 9 miliardi, non si tratta solo di proteggere le bellezze della natura, ma di proteggere luoghi che ci forniscono acqua, cibo e medicine, e ci proteggono da disastri come uragani e tsunami", ha aggiunto.
Nel congresso sarà presentato un aggiornamento sul progresso verso i target della Convenzione Aichi sulla biodiversità, firmata nel 1992 da 193 nazioni, con un obiettivo chiave di proteggere entro il 2020 almeno il 17% delle aree terrestri del mondo e il 10% di quelle marine. Obiettivi con poche prospettive di realizzazione: un analisi di quest'anno identifica 543 casi di "degrado, riduzione di area e declassificazione" di aree protette in 57 paesi, per una superficie di oltre 500 mila kmq. Un ruolo chiave nella futura conservazione della natura viene riconosciuto ai giovani professionisti - scienziati, ricercatori e decision maker - a cui sono dedicati diversi interventi, dibattiti e workshop. Trenta di loro provenienti da 18 paesi si sono preparati in un 'ritiro' nei quattro giorni precedenti al congresso, coordinato dalla giovane scienziata italiana di ecologia marina Mariasole Bianco, fondatrice dell'associazione no profit Worldrise, che crea e promuove progetti per la tutela dell'ambiente marino coinvolgendo i giovani. Il gruppo dei 30 ha stilato una 'Dichiarazione dei giovani professionisti', che fra l'altro, spiega Bianco all'Ansa, "servirà a indicare ai vertici delle associazioni ambientaliste ne mondo le linee guida per coinvolgere la nostra generazione nella tutela dell'ambiente".
Il 15 novembre Mariasole Bianco contribuirà a presentare due nuove mappe di Google Ocean che permettono di esplorare la Grande barriera corallina australiana e i fondali della baia di Sydney. Simile a Google Map, Google Ocean consente di andare
sott'acqua, muoversi negli abissi, fra i coralli, le montagne e i vulcani sottomarini. Sono tecnologie importanti per la conservazione degli oceani, ha detto Bianco, "perché contribuiscono a conoscere l'ambiente marino e la conoscenza certamente aiuta la tutela e la protezione, ma non sono sufficienti, bisogna investire sul futuro e sui giovani''. (ANSA).
Via al congresso mondiale Iucn, obiettivo agenda conservazione (ANSA) - ROMA, 12 NOV -
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I leader mondiali talvolta non vedono quanto sia essenziale per l'umanità proteggere la natura", ha detto oggi la direttrice generale dell'IUCN, Julia Marton-Lefèvre. "In un pianeta con 7 miliardi di persone, che vanno verso i 9 miliardi, non si tratta solo di proteggere le bellezze della natura, ma di proteggere luoghi che ci forniscono acqua, cibo e medicine, e ci proteggono da disastri come uragani e tsunami", ha aggiunto.
Nel congresso sarà presentato un aggiornamento sul progresso verso i target della Convenzione Aichi sulla biodiversità, firmata nel 1992 da 193 nazioni, con un obiettivo chiave di proteggere entro il 2020 almeno il 17% delle aree terrestri del mondo e il 10% di quelle marine. Obiettivi con poche prospettive di realizzazione: un analisi di quest'anno identifica 543 casi di "degrado, riduzione di area e declassificazione" di aree protette in 57 paesi, per una superficie di oltre 500 mila kmq. Un ruolo chiave nella futura conservazione della natura viene riconosciuto ai giovani professionisti - scienziati, ricercatori e decision maker - a cui sono dedicati diversi interventi, dibattiti e workshop. Trenta di loro provenienti da 18 paesi si sono preparati in un 'ritiro' nei quattro giorni precedenti al congresso, coordinato dalla giovane scienziata italiana di ecologia marina Mariasole Bianco, fondatrice dell'associazione no profit Worldrise, che crea e promuove progetti per la tutela dell'ambiente marino coinvolgendo i giovani. Il gruppo dei 30 ha stilato una 'Dichiarazione dei giovani professionisti', che fra l'altro, spiega Bianco all'Ansa, "servirà a indicare ai vertici delle associazioni ambientaliste ne mondo le linee guida per coinvolgere la nostra generazione nella tutela dell'ambiente".
Il 15 novembre Mariasole Bianco contribuirà a presentare due nuove mappe di Google Ocean che permettono di esplorare la Grande barriera corallina australiana e i fondali della baia di Sydney. Simile a Google Map, Google Ocean consente di andare
sott'acqua, muoversi negli abissi, fra i coralli, le montagne e i vulcani sottomarini. Sono tecnologie importanti per la conservazione degli oceani, ha detto Bianco, "perché contribuiscono a conoscere l'ambiente marino e la conoscenza certamente aiuta la tutela e la protezione, ma non sono sufficienti, bisogna investire sul futuro e sui giovani''. (ANSA).

Ambiente: giovani professionisti per ruolo in organizzazioni Workshop a Sydney prima del congresso mondiale di Iucn (ANSA) - SYDNEY, 7 NOV -
Si apre oggi nel parco nazionale delle Blue Mountains a ovest di Sydney il workshop di giovani professionisti di conservazione ambientale, in preparazione del World Park Congress dell'International Union for Conservation of Nature (IUCN), principale punto di riferimento sulla conservazione e gestione delle aree protette nel mondo, in programma a Sydney dal 12 al 19 novembre con la partecipazione di oltre 5000 delegati. L'appuntamento preparatorio di quattro giorni è coordinato dalla giovane scienziata italiana di ecologia marina Mariasole Bianco, fondatrice dell'associazione no profit Worldrise, che crea e promuove progetti per la tutela dell'ambiente marino coinvolgendo giovani studenti e neolaureati. Partecipano al workshop 30 giovani professionisti di conservazione ambientale - scienziati, ricercatori e decision maker - tutti sotto i 30 anni e provenienti da 18 paesi, dal Perù al Kenya, dagli Usa al Brasile, dalla Russia alle Filippine. Un obiettivo del workshop - ha detto all'Ansa Mariasole
Bianco - è di stilare una Dichiarazione dei giovani professionisti, che "servirà a indicare ai vertici delle associazioni ambientaliste di tutto il mondo le linee guida per integrare i giovani professionisti nelle grandi organizzazioni impegnate nella tutela dell'ambiente". "C'è moltissimo da fare in pochissimo tempo. Saremo noi giovani ad affrontare la situazione peggiore e dobbiamo essere pronti. E' necessario uno scambio di competenze fra i dirigenti di oggi e quelli futuri". Il World Park Congress, che si riunisce ogni 10 anni dal 1962, sarà aperto dal direttore generale dell'Unesco Irina Bokova e farà il punto sulla situazione delle aree protette, mettendone in luce il ruolo vitale nel conservare la biodiversità. E dovrà formulare l'agenda globale per la conservazione nel quadro di uno sviluppo sostenibile, nel documento finale chiamato "La promessa di Sydney". (ANSA).
Si apre oggi nel parco nazionale delle Blue Mountains a ovest di Sydney il workshop di giovani professionisti di conservazione ambientale, in preparazione del World Park Congress dell'International Union for Conservation of Nature (IUCN), principale punto di riferimento sulla conservazione e gestione delle aree protette nel mondo, in programma a Sydney dal 12 al 19 novembre con la partecipazione di oltre 5000 delegati. L'appuntamento preparatorio di quattro giorni è coordinato dalla giovane scienziata italiana di ecologia marina Mariasole Bianco, fondatrice dell'associazione no profit Worldrise, che crea e promuove progetti per la tutela dell'ambiente marino coinvolgendo giovani studenti e neolaureati. Partecipano al workshop 30 giovani professionisti di conservazione ambientale - scienziati, ricercatori e decision maker - tutti sotto i 30 anni e provenienti da 18 paesi, dal Perù al Kenya, dagli Usa al Brasile, dalla Russia alle Filippine. Un obiettivo del workshop - ha detto all'Ansa Mariasole
Bianco - è di stilare una Dichiarazione dei giovani professionisti, che "servirà a indicare ai vertici delle associazioni ambientaliste di tutto il mondo le linee guida per integrare i giovani professionisti nelle grandi organizzazioni impegnate nella tutela dell'ambiente". "C'è moltissimo da fare in pochissimo tempo. Saremo noi giovani ad affrontare la situazione peggiore e dobbiamo essere pronti. E' necessario uno scambio di competenze fra i dirigenti di oggi e quelli futuri". Il World Park Congress, che si riunisce ogni 10 anni dal 1962, sarà aperto dal direttore generale dell'Unesco Irina Bokova e farà il punto sulla situazione delle aree protette, mettendone in luce il ruolo vitale nel conservare la biodiversità. E dovrà formulare l'agenda globale per la conservazione nel quadro di uno sviluppo sostenibile, nel documento finale chiamato "La promessa di Sydney". (ANSA).

Barriera corallina australiana su Google Ocean.
Presentazione al World Park Congress a Sidney (ANSA) - ROMA, 04 NOV -
Google Ocean si arricchisce di altre due mappe: sarà possibile esplorare con un click anche la barriera corallina australiana e i fondali della baia di Sydney.
Le mappe saranno presentate durante il World Park Congress che si svolge a Sidney dal 12 al 19 novembre. La presentazione avverrà anche con il contributo della ricercatrice italiana Mariasole Bianco, che lavora in Australia nella Commissione Mondiale delle Aree Protette (WCPA). Simile a Google map, Google Ocean permette di utilizzare per l'oceano una funzione simile a Street-view, che consente di andare sott'acqua, muoversi negli abissi, fra i coralli, le montagne e i vulcani sottomarini. Oltre alle mappe tridimensionali ad alta definizione dei fondali marini, Google Ocean fornisce anche aggiornamenti sui cambiamenti climatici.
Sicuramente queste tecnologie sono importanti per la conservazione degli oceani, spiega Bianco che ha organizzato la sessione della presentazione, ''perché contribuiscono a conoscere l'ambiente marino e la conoscenza certamente aiuta la tutela e la protezione ma non sono sufficienti, bisogna investire sul futuro e sui giovani''. In relazione a questo, Bianco, per l'appuntamento di Sydney sta preparando una 'Dichiarazione dei giovani professionisti', che fra le altre cose, spiega ''servirà ad indicare ai vertici delle associazioni ambientaliste di tutto il mondo le linee guida per coinvolgere la nostra generazione nelle attività destinate alla tutela dell'ambiente''.
Presentazione al World Park Congress a Sidney (ANSA) - ROMA, 04 NOV -
Google Ocean si arricchisce di altre due mappe: sarà possibile esplorare con un click anche la barriera corallina australiana e i fondali della baia di Sydney.
Le mappe saranno presentate durante il World Park Congress che si svolge a Sidney dal 12 al 19 novembre. La presentazione avverrà anche con il contributo della ricercatrice italiana Mariasole Bianco, che lavora in Australia nella Commissione Mondiale delle Aree Protette (WCPA). Simile a Google map, Google Ocean permette di utilizzare per l'oceano una funzione simile a Street-view, che consente di andare sott'acqua, muoversi negli abissi, fra i coralli, le montagne e i vulcani sottomarini. Oltre alle mappe tridimensionali ad alta definizione dei fondali marini, Google Ocean fornisce anche aggiornamenti sui cambiamenti climatici.
Sicuramente queste tecnologie sono importanti per la conservazione degli oceani, spiega Bianco che ha organizzato la sessione della presentazione, ''perché contribuiscono a conoscere l'ambiente marino e la conoscenza certamente aiuta la tutela e la protezione ma non sono sufficienti, bisogna investire sul futuro e sui giovani''. In relazione a questo, Bianco, per l'appuntamento di Sydney sta preparando una 'Dichiarazione dei giovani professionisti', che fra le altre cose, spiega ''servirà ad indicare ai vertici delle associazioni ambientaliste di tutto il mondo le linee guida per coinvolgere la nostra generazione nelle attività destinate alla tutela dell'ambiente''.

ESPERTA, NETWORK AREE MARINE INVESTIMENTO FUTURO DELL'OCEANO (ANSA) -
SYDNEY, 19 NOV -
L'istituzione del Network Nazionale di Aree Marine Protette, con cui l'Australia raggiunge la protezione di più di 3 milioni di km2 di Oceano, un terzo delle sue acque territoriali, è "una tappa importantissima per la conservazione dell'ambiente marino sia in Australia sia a livello globale". E' il commento della biologa marina Mariasole Bianco, a capo della campagna "Protect our Coral Sea", una coalizione di gruppi ambientalistici, all'annuncio del ministro dell'Ambiente Tony Burke sulla creazione di una rete di cinque zone principali, in cui verrà limitata l'esplorazione di petrolio e gas al largo dell'Australia occidentale e sarà rafforzata la protezione delle barriere coralline. "All'interno di questo network il Coral Sea rappresenta la ciliegina sulla torta", ha detto all'Ansa Mariasole. "Quasi un milione di chilometri quadrati di acque trasparenti, barriere coralline e tutte le spettacolari forme di vita che abitano il Mar dei Coralli sono da oggi protette da forme distruttive di pesca ed esplorazione mineraria". L'area marina protetta in questo mare rappresenta un investimento per il futuro dell'oceano, agendo da ricostituente per lo stock ittico e andando a proteggere da dannose attività estrattive uno degli ultimi intatti ecosistemi corallini del mondo, ha aggiunto. Proteggere le aree marine e la loro fauna senza per questo limitare lo sviluppo economico è possibile, sottolinea la biologa, laureata a Genova in Conservazione dell'ambiente marino, con una tesi sulla gestione delle aree marine protette liguri. Per la specialistica però Mariasole non ha trovato nulla in Italia sulle aree marine protette e ha completato gli studi presso l'Università James Cook di Townsville, che è all'avanguardia in questo settore. "Spero che le altre nazioni prendano esempio dall'Australia e riescano anche a trovare un equilibrio tra quello che prendiamo dai nostri mari e quello che decidiamo di conservare per le generazioni future", aggiunge. "Il Coral Sea - continua Mariasole - rappresenta un esempio
unico al mondo di spettacolare barriera corallina e di habitat subacquei che, per la distanza dalla costa, hanno subito
pochissimo l'impatto umano. Contiene 49 tipologie differenti di habitat marini ed è uno degli ultimi posti rimasti al mondo
dove squali, tonni, marlin e altre specie sovra-pescate in tutto il mondo sono ancora abbondanti". (ANSA)
SYDNEY, 19 NOV -
L'istituzione del Network Nazionale di Aree Marine Protette, con cui l'Australia raggiunge la protezione di più di 3 milioni di km2 di Oceano, un terzo delle sue acque territoriali, è "una tappa importantissima per la conservazione dell'ambiente marino sia in Australia sia a livello globale". E' il commento della biologa marina Mariasole Bianco, a capo della campagna "Protect our Coral Sea", una coalizione di gruppi ambientalistici, all'annuncio del ministro dell'Ambiente Tony Burke sulla creazione di una rete di cinque zone principali, in cui verrà limitata l'esplorazione di petrolio e gas al largo dell'Australia occidentale e sarà rafforzata la protezione delle barriere coralline. "All'interno di questo network il Coral Sea rappresenta la ciliegina sulla torta", ha detto all'Ansa Mariasole. "Quasi un milione di chilometri quadrati di acque trasparenti, barriere coralline e tutte le spettacolari forme di vita che abitano il Mar dei Coralli sono da oggi protette da forme distruttive di pesca ed esplorazione mineraria". L'area marina protetta in questo mare rappresenta un investimento per il futuro dell'oceano, agendo da ricostituente per lo stock ittico e andando a proteggere da dannose attività estrattive uno degli ultimi intatti ecosistemi corallini del mondo, ha aggiunto. Proteggere le aree marine e la loro fauna senza per questo limitare lo sviluppo economico è possibile, sottolinea la biologa, laureata a Genova in Conservazione dell'ambiente marino, con una tesi sulla gestione delle aree marine protette liguri. Per la specialistica però Mariasole non ha trovato nulla in Italia sulle aree marine protette e ha completato gli studi presso l'Università James Cook di Townsville, che è all'avanguardia in questo settore. "Spero che le altre nazioni prendano esempio dall'Australia e riescano anche a trovare un equilibrio tra quello che prendiamo dai nostri mari e quello che decidiamo di conservare per le generazioni future", aggiunge. "Il Coral Sea - continua Mariasole - rappresenta un esempio
unico al mondo di spettacolare barriera corallina e di habitat subacquei che, per la distanza dalla costa, hanno subito
pochissimo l'impatto umano. Contiene 49 tipologie differenti di habitat marini ed è uno degli ultimi posti rimasti al mondo
dove squali, tonni, marlin e altre specie sovra-pescate in tutto il mondo sono ancora abbondanti". (ANSA)

Mar dei Coralli: dietro all’area marina piu’ grande al mondo c’e’ un’Italiana
Proteggere le aree marine e la loro fauna senza per questo limitare lo sviluppo economico è possibile. Se non in Italia, certamente in Australia che in quanto a conservazione ambientale fa scuola nel mondo, soprattutto perché «le bellezze paesaggistiche e ambientali vengono valorizzate e diventano motore dell’economia sia locale che nazionale».
PROTECT OUR CORAL SEA - È quel che ci ha raccontato Mariasole Bianco, giovane laureata a capo della campagna “Protect our coral sea” (proteggiamo il nostro Mar dei Coralli) che promuove azioni di educazione e coinvolgimento della comunità locale nel nord Queensland. Mariasole si è laureata a Genova in Conservazione dell’ambiente marino, con una tesi sulla gestione delle aree marine protette liguri di Portofino e delle Cinque Terre. Per la specialistica però Mariasole non ha trovato nulla in Italia sulle aree marine protette ed è andata in Australia. Qui, durante uno stage, ha cominciato a collaborare con la campagna che ora gestisce. «La campagna è una collaborazione unica tra le più grandi organizzazioni di tutela ambientale no-profit australiane e internazionali» dice Mariasole. «L’obbiettivo è la protezione del Coral Sea attraverso l’istituzione dell’area marina protetta più grande al mondo.» L’area, un milione di chilometri quadrati, la metà dei quali tutelata da qualsiasi attività di pesca, è aperta a turismo e ad attività di ricerca. Nell’altra metà la pesca è permessa ma rigorosamente regolata. Lo sfruttamento minerario invece è proibito in tutta l’area.
IL MARE DEI CORALLI - «Il Coral Sea – continua Mariasole – rappresenta un esempio unico al mondo di spettacolare barriera corallina e di habitat subacquei che, per la distanza dalla costa, hanno subito pochissimo l’impatto umano. Il Coral Sea è uno degli ultimi posti rimasti al mondo dove squali, tonni, marlin e altre specie sovra-pescate in tutto il mondo sono ancora abbondanti». Il Coral Sea contiene 49 tipologie differenti di habitat marini che variano da spettacolari coloratissimi coralli a profonde montagne sottomarine le quali favoriscono la risalita di plancton e nutrienti e divengono così punti di aggregazione per balene, tartarughe e uccelli marini. Il Coral Sea fa parte del network di riserve marine nazionale australiano e conferma l’Australia leader nel mondo in materia di protezione dell’ambiente marino».
E L’ITALIA? - «Un Paese con tante possibilità e troppe occasioni non colte». Spesso le aree protette sono mal sopportate dalla popolazione locale, che ne avverte più le limitazioni che le opportunità. In Australia la logica è diversa. Fin dalla creazione di queste aree si cerca di coinvolgere le comunità locali. L’area ha certo vincoli e divieti, ma è un’importante volano di sviluppo economico ed umano. Inoltre ci sono poche risorse e investimenti, tanto meno sui giovani. L’esperienza di Mariasole in Italia è stata perlopiù di volontariato, presso l’Area marina protetta di Portofino e per l’organizzazione Battibaleno di ricerca sui cetacei. Difficile però trovare un lavoro retribuito. «Mi considero particolarmente fortunata di questa opportunità e mi piange il cuore constatare che in Italia una situazione del genere sarebbe praticamente impossibile per uno studente appena laureato». Mariasole lavora per un grande obiettivo: l’area marina protetta del Coral Sea sarà la più grande al mondo e questo la «motiva a credere nel mio futuro e al mio piccolo contributo per un mondo migliore». Un’occasione che in Italia non avrebbe mai potuto cogliere.
Proteggere le aree marine e la loro fauna senza per questo limitare lo sviluppo economico è possibile. Se non in Italia, certamente in Australia che in quanto a conservazione ambientale fa scuola nel mondo, soprattutto perché «le bellezze paesaggistiche e ambientali vengono valorizzate e diventano motore dell’economia sia locale che nazionale».
PROTECT OUR CORAL SEA - È quel che ci ha raccontato Mariasole Bianco, giovane laureata a capo della campagna “Protect our coral sea” (proteggiamo il nostro Mar dei Coralli) che promuove azioni di educazione e coinvolgimento della comunità locale nel nord Queensland. Mariasole si è laureata a Genova in Conservazione dell’ambiente marino, con una tesi sulla gestione delle aree marine protette liguri di Portofino e delle Cinque Terre. Per la specialistica però Mariasole non ha trovato nulla in Italia sulle aree marine protette ed è andata in Australia. Qui, durante uno stage, ha cominciato a collaborare con la campagna che ora gestisce. «La campagna è una collaborazione unica tra le più grandi organizzazioni di tutela ambientale no-profit australiane e internazionali» dice Mariasole. «L’obbiettivo è la protezione del Coral Sea attraverso l’istituzione dell’area marina protetta più grande al mondo.» L’area, un milione di chilometri quadrati, la metà dei quali tutelata da qualsiasi attività di pesca, è aperta a turismo e ad attività di ricerca. Nell’altra metà la pesca è permessa ma rigorosamente regolata. Lo sfruttamento minerario invece è proibito in tutta l’area.
IL MARE DEI CORALLI - «Il Coral Sea – continua Mariasole – rappresenta un esempio unico al mondo di spettacolare barriera corallina e di habitat subacquei che, per la distanza dalla costa, hanno subito pochissimo l’impatto umano. Il Coral Sea è uno degli ultimi posti rimasti al mondo dove squali, tonni, marlin e altre specie sovra-pescate in tutto il mondo sono ancora abbondanti». Il Coral Sea contiene 49 tipologie differenti di habitat marini che variano da spettacolari coloratissimi coralli a profonde montagne sottomarine le quali favoriscono la risalita di plancton e nutrienti e divengono così punti di aggregazione per balene, tartarughe e uccelli marini. Il Coral Sea fa parte del network di riserve marine nazionale australiano e conferma l’Australia leader nel mondo in materia di protezione dell’ambiente marino».
E L’ITALIA? - «Un Paese con tante possibilità e troppe occasioni non colte». Spesso le aree protette sono mal sopportate dalla popolazione locale, che ne avverte più le limitazioni che le opportunità. In Australia la logica è diversa. Fin dalla creazione di queste aree si cerca di coinvolgere le comunità locali. L’area ha certo vincoli e divieti, ma è un’importante volano di sviluppo economico ed umano. Inoltre ci sono poche risorse e investimenti, tanto meno sui giovani. L’esperienza di Mariasole in Italia è stata perlopiù di volontariato, presso l’Area marina protetta di Portofino e per l’organizzazione Battibaleno di ricerca sui cetacei. Difficile però trovare un lavoro retribuito. «Mi considero particolarmente fortunata di questa opportunità e mi piange il cuore constatare che in Italia una situazione del genere sarebbe praticamente impossibile per uno studente appena laureato». Mariasole lavora per un grande obiettivo: l’area marina protetta del Coral Sea sarà la più grande al mondo e questo la «motiva a credere nel mio futuro e al mio piccolo contributo per un mondo migliore». Un’occasione che in Italia non avrebbe mai potuto cogliere.